IL DIGITALE SENZA EQUITÀ CHE ATTACCA LA SCUOLA
Sì, il calendario scolastico è oggi butterato dalle quarantene e dai provvedimenti contumaciali per studenti e professori (che linguaggio, per la scuola!). Col risultato che quando esistono docenti di ruolo o supplenti regolarmente a scuola spesso mancano gli studenti e quando esistono gli studenti capita che non ci siano i professori. Perché anche loro si ammalano. Era prevedibile questo. Lo si sapeva da quando le scuole sono state chiuse a febbraio: a febbraio. Ed è probabile che il fenomeno non solo continui, ma si accentui, durante l’anno, sebbene i bambini e i giovani, se positivi al Covid19, abbiano in genere una carica virale molto più debole di quella degli adulti, siano per lo più asintomatici e, quei pochissimi che si ammalano, abbiano disturbi neanche spesso influenzali ma solo para influenzali. Eppure anche loro fino a che non hanno i tamponi negativi non tornano a scuola.Da febbraio ad oggi, era ragionevole aspettarsi che i problemi sollevati da questi dati di fatto non avrebbero potuto essere governati e gestiti con protocolli uguali per tutta la lunga Italia. Disposti autoritativamente dal centro. Era più ragionevole predisporre dal centro procedure e indicazioni generali (generali, non di 100 pagine!) e soprattutto chiare che sarebbe stato poi compito di istituzioni scolastiche e Ats gestire e declinare al meglio nei territori, in situazione.
le differenze dei contesti singoli, così, ad esempio, da dare di più a chi ha meno e meno a chi ha già più. Appunto, niente. La nostra classe dirigente pare sia di mentalità fordista anche quando il fordismo dovrebbe essere, almeno in teoria, defunto: tutto in serie, tutto con gli stessi stampi. Procuste era un dilettante al confronto.
Sempre a febbraio, infatti, si sapeva dell’emergenza precari. Contando tutte le tipologie erano quasi 250 mila. Tra essi 80 mila solo per il sostegno. E senza specializzazione. Prova che, nonostante la retorica istituzionale sulla scuola inclusiva, la maggior parte dei disabili è costretta a cambiare, ogni anno, da due a quattro supplenti, compromettendo in questo modo la qualità della loro relazione educativa. Si sapeva pure che il problema si sarebbe concentrato soprattutto al nord.
Invece, potenza del politically correct burocratico, con orgoglio degno di miglior causa e aspettandosi applausi, il ministero, contro le obiezioni di numerosi parlamentari (ma ormai, purtroppo, il parlamento è commissariato), ha deciso di bandire proprio per quest’anno concorsi riservati e ordinari per oltre 600 mila candidati (a loro volta, per la massima parte precari che si assenteranno a lungo dalle lezioni, provocando ulteriori disagi) e con migliaia e migliaia di commissioni di valutazione composte da dirigenti e docenti che dovranno accoppiare questo loro impegno con il già problematico normale servizio. Ha introdotto, inoltre, le Graduatorie Provinciali per le Supplenze (GPS) sopprimendo quelle di istituto e informatizzando tutta le procedure (e sappiamo che cosa è successo quanto ad errori e qui pro quo!). Infine, come se non bastasse, non solo ha autorizzato, ma ha rivendicato come proprio alto merito il fatto di procedere: a) ai trasferimenti di oltre centomila docenti a tempo indeterminato per lo più dal nord al sud; b) alle assegnazioni provvisorie per altre migliaia e migliaia di insegnanti; c) all’aspettativa senza stipendio concessa a chi, ad esempio, immesso in ruolo al nord, avesse ritenuto per lui più conveniente economicamente chiedere di essere nominato supplente in una scuola vicina a casa del centro sud, in attesa di rientrare come titolare; d) a non confermare nelle rispettive sedi di servizio i docenti precari.
Le conseguenze di questi provvedimenti sono quelle che si stanno vivendo. Un’imponente facite ammuina territoriale di ben oltre la metà dei quasi 900 mila docenti totali. Tutti questi hanno incontrato e incontreranno per la prima volta colleghi e, soprattutto, studenti e famiglie di cui non conoscono né storia e né i problemi di apprendimento accumulati l’anno precedente. Cosicché l’auspicato e più volte promesso recupero degli apprendimenti persi dagli studenti più sfavoriti nel lockdown, o il rispetto della continuità educativa e didattica, in troppi casi, saranno semplicemente frasi fatte.
Ciliegina sulla torta. Sono 20 anni che si auspica che la scuola prenda sul serio la rivoluzione digitale per la qualità degli apprendimenti. Bill Clinton disse che diffidare di questo principio significava soltanto «voler inchiodare la gelatina ad un muro». Il ministro Moratti, nel 2001, lo prese sul serio e lo propose come una delle sue famose tre I (Internet, Impresa, Inglese). Fu seppellita dagli improperi. Per 15 anni il tema si è inabissato. Il covid lo ha, però, resuscitato a livello di massa. Solo che il Decreto Ministeriale n. 89/2020 prevede che «La didattica digitale integrata (DDI), intesa come metodologia innovativa di insegnamento-apprendimento, è rivolta a tutti gli studenti della scuola secondaria di II grado, come modalità didattica complementare che integra la tradizionale esperienza di scuola in presenza». Da un lato, quindi, esclude il ricorso alla DDI per gli alunni dei gradi scolastici inferiori anche nei casi di sospensione delle attività didattiche per Covid (ma per fortuna le scuole sono ragionevoli e disobbediscono). Dall’altro, però, porta il più insidioso attacco finora registrato alla portata didatticamente innovativa del digitale. Infatti, prevedendo alcuni docenti e studenti in aula, in presenza, e altri a distanza, suggerisce che i due gruppi di studenti possano ricevere lo stesso insegnamento. Basta la prossemica, per non farla lunga con altre scienze anche molto più accreditate, per sapere che se la didattica dell’aula reale in presenza si estende anche a quella digitale a distanza, stiamo sbagliando strada, danneggiando la qualità dell’istruzione e aumentando le disuguaglianze già inaccettabili, al posto di diminuirle. Nella scuola in presenza c’è distanza tra gli studenti e il professore (che da una postazione privilegiata, spesso ancora su pedana, insegna), distanza tra studente e studente (che possono comunicare tra di loro solo quando lo stabilisce il docente), distanza tra l’esigua porzione di mondo che esiste all’interno dell’aula scolastica e il resto del mondo, al di fuori dell’aula (il sociale, il mondo del lavoro, gli amici…). L’esatto contrario della prossemica che deve reggere invece il digitale. Ma tanto per il ministero le contraddizioni non esistono. Sono inventate. Amen. Buon per lui, ma certo non per un investimento serio sulla scuola del futuro.
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