La memoria sbagliata
Le polemiche che ha destato la presentazione della nuova edizione di «Micce corte», biografia di Prima Linea a firma di Sergio Segio testimoniano ancora una volta la grande difficoltà dell’Italia a rapportarsi col proprio controverso passato, anche quello più recente. La ragione di ciò credo possa essere riassunta essenzialmente nel fatto che gli anni di piombo sono un periodo irrisolto nella nostra coscienza collettiva. In primo luogo perché abbiamo affidato unicamente alla giustizia ordinaria il compito di traghettare il paese fuori dalla spirale di violenza in cui era precipitato, illudendoci che i processi e gli ergastoli avrebbero consentito di chiudere questo sanguinoso e controverso capitolo della repubblica. Sbagliavamo. Perché quasi mai si è giunti ad una verità giudiziaria con l’azione della magistratura. Bisogna inoltre considerare che nemmeno le pene effettivamente inflitte hanno restituito quanto il terrorismo ha tolto alle sue vittime che tutt’ora restano in attesa, anzi in pretesa di giustizia. L’altra ragione per cui siamo ancora una paese irrisolto rispetto a quegli anni è più profonda e antica e si lega alla naturale vocazione dell’Italia a dividersi in fazioni contrapposte. Sempre divisi, sempre in armi, con i i vincitori a scrivere la storia ufficiale e gli sconfitti consegnati al silenzio. Non credo che, come alcuni sostengono, siamo un paese senza memoria: al contrario, abbiamo troppe memorie e troppo contrastanti. In questo senso vedo prezioso il lavoro di paziente tessitura di Manlio Milani e la Casa della Memoria, intenti a costruire una memoria condivisa in cui ricondurre e rileggere i tanti eventi di quegli anni. Una memoria che accomuna e non contrappone. Io ho letto il libro di Segio che, più di altri, critica le ragioni della lotta armata e, sebbene da un punto di vista che fatichiamo a comprendere e accettare, pone alcuni interrogativi che chi ha a cuore le sorti del nostro paese non dovrebbe eludere. In primo luogo che ne è e che ne sarà di chi ha deposto le armi e pagato il suo prezzo? Ma soprattutto: la logica per cui chi è colpevole lo sarà per sempre e chi è vittima altrettanto non potrà mai essere superata? Segio come molti altri parla con il linguaggio criptico di quegli anni di una «soluzione politica» intendendo con ciò la previsione dell’art. 151 del codice penale, ovvero il provvedimento di amnistia. Credo che questa opzione oggi debba essere considerata, se adottiamo la logica della memoria condivisa. Tuttavia non vi può essere amnistia senza riparazione del male arrecat. Rispetto agli episodi rimasti irrisolti bisogna esigere la verità, l’unica forma di riparazione possibile per chi ha visto morire i propri cari senza ragione. La riabilitazione di chi in quegli anni era dall’altra parte della P38 oggi passa dalla verità tout court. Condividere la memoria significa anche farsi carico e condividere il dolore, non più di alcuni ma di tutti. Dopo la caduta del regime del Aparheid in Sudafrica fu istituita la Commissione per la verità e la riconciliazione che aveva il compito non solo di concedere l’amnistia relativa ai crimini commessi durante quel regime ma più in generale di puntare ad una reale riconciliazione del Paese. I risultati furono faticosi ma sorprendenti. Noi non siamo mai stati capaci di tanto preferendo ignorare le fratture profonde della nostra società e rispondere col silenzio prima e con l’oblio poi al disagio che esse creano. Resta da stabilire se sia stato giusto farlo e se abbia ancora un senso oggi cercare una narrazione unitaria dell’Italia. Non esiste la controprova ma sono convinto che non provarci sia l’ennesimo indice della debolezza con cui affrontiamo un futuro non meno nebuloso del passato.