Zamperini: «Serve la partecipazione»
Il generale Karl von Clausewitz diceva che «la guerra non è che la prosecuzione della politica con altri mezzi», mentre la filosofa Hannah Arendt ripeteva che la violenza non ha nulla a che fare con la politica. E oggi, che viviamo in una realtà politica ormai orfana delle tensioni della Guerra fredda, come dobbiamo interpretare la democrazia? Ha ancora senso parlare del rischio di una deriva autoritaria? Adriano Zamperini, professore bresciano di Psicologia sociale all’Università di Padova, sa che gli anni di piombo e la strategia della tensione sono eventi del passato, ma archiviarli sarebbe un errore. Perché se «la democrazia è un sistema che intende risolvere i conflitti senza l’uso della violenza», è pur vero che «la violenza – spiega il professore – è una possibilità sempre insita in democrazia». Come dire, il sistema di governo non è una forma data per sempre, ma un sistema che subisce l’influenza del contesto socioeconomico nel quale è inserito. Non va infatti dimenticato che la nomina di Adolf Hitler a cancelliere, nel gennaio 1933, fu preceduta da elezioni politiche che diedero ai nazisti la maggioranza relativa. Ecco perché la violenza non è un fantasma del passato o un problema che non si ripresenterà mai più. «La democrazia è un patto sociale, ma per mantenerlo — ricorda Zamperini — serve partecipazione» e, al tempo stesso, «la consapevolezza» dei valori che ne stanno alla base. Una riflessione che consegna ad ognuno singolarmente – ea tutti, come società – una responsabilità civile. È uno dei punti sviluppati dal docente nel suo ultimo libro intitolato Democrazia e violenza (Mimesis Edizioni): Zamperini ricorda che il governo del popolo si è piano piano imposto come una «coesistenza conflittuale» di libertà individuale da una parte e coercizione dello Stato dall’altra. Una coercizione che le istituzioni esercitano nei limiti della legge. Progressivamente, quindi, «la legge del più forte è stata sostituita dallo statuto della parola». Tradotto, ci sono i tribunali per reati e ingiustizie, i sindacati per i nodi lavorativi, il parlamento per cambiare le leggi. Di fatto, viene «sottoscritto un patto sociale». E tutto ciò che è violento esula da quel patto.
Ma oggi che le stragi degli anni ‘70 sembrano un capitolo ormai archiviato, cosa è meglio farne di quelle tragedie collettive? «Solitamente si pensa che basti ricordare ciò che è successo per evitare che accada ancora». Ma il rischio è di «rinchiudere questi eventi in una logica museale». E si finisce per «dormire su una polveriera». In altre parole, l’invito è quello di vigilare sempre per evitare che il monopolio della violenza, attribuito allo Stato, non preveda deroghe ai principi del diritto. Basti pensare ai soprusi della Polizia nei confronti dei manifestanti del G8 di Genova, nella caserma di Bolzaneto (condannati in sede giudiziaria). Era il 2001. Oppure al rischio che la lotta al terrorismo venga fatta con strumenti che sospendano i diritti umani.