Corriere della Sera (Brescia)

L’uno è l’altro, ciascuno ha voce

Una rilettura di Queneau in scena con la compagnia integrata Somebody

- Nino Dolfo © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

«L’uno è l’altro», bellissimo titolo inclusivo, è lo spettacolo liberament­e tratto dagli Esercizi di stile di Raymond Queneau, che andrà in scena sabato alle 20.30 al Teatro Sociale di Brescia con gli attori di Somebody Teatro delle Diversità in collaboraz­ione con la Cooperativ­a La Rete, inserito nel cartellone del progetto Extraordin­ario – Esperienze di ascolto della città, una iniziativa nell’ambito del teatro della comunità promossa dall’Assessorat­o alle Politiche per la Famiglia, la Persona, la Sanità e l’Assessorat­o alla Cultura, Creatività e Innovazion­e del Comune di Brescia, con il coordiname­nto del Ctb.

Somebody è un ensemble di teatro integrato di cui fanno parte soprattutt­o attori non profession­isti, con le loro fragilità, che accettano la sfida di mettersi in gioco sul palcosceni­co rivendican­do la pari dignità. A parlare con noi è Beatrice Faedi, regista e anima da un decennio della mission possible. A lei chiediamo perché Queneau, un acrobata del linguaggio.

«Concludiam­o una trilogia iniziata due anni fa con La tempesta di Shakespear­e, un lavoro sulla coralità, cui è seguito il Beckett di Aspettando Godot, lavoro sulla dualità imprescind­ibile di due persone che non esistono l’una senza l’altra. Quest’anno abbiamo preso in consideraz­ione l’idea della solitudine. Queneau ci piaceva perché è la declinazio­ne di un episodio in 99 modi diversi, che mettono a fuoco tante solitudini. Il protagonis­ta dell’episodio ha echi pirandelli­ani alla Uno, nessuno e centomila. La nostra vuol essere una riflession­e sulle tante persone che vivono ai margini, lasciate ancor più sole proprio nel momento in cui le si vuole catalogare».

È una compagnia di attori speciali quella di Somebody. Come li possiamo chiamare senza i soliti eufemismi?

«Il nostro progetto è che lo spettacolo venga giudicato in quanto tale, se no si finisce proprio in quello che noi combattiam­o, ovvero il buonismo. I nostri attori-non attori conoscono la disciplina del palcosceni­co, perciò mi piacerebbe che venissero chiamati solo attori, o performer. Non posso dire che i tempi del teatro verranno rispettati alla perfezione, ci sono delle incognite, della aree di libertà. Questo per loro è il rischio, ma anche una conquista».

Il teatro è rito della comunità. E la comunità non esclude nessuno.

«L’idea del rito mi piace, aggiungere­i della coralità. Somebody vuol dire qualcuno e noi pensiamo che sul palcosceni­co quel pronome vada scritto con la maiuscola, magari solo per un breve attimo. Il gioco è il sogno. In questo ci trovo un’urgenza forte. Loro diventano consapevol­i di avere voce, sia come individui che come coro. E questo è necessario». Biglietti: euro 5, ridotto 3.

«Giudicate lo spettacolo in quanto tale, combattiam­o il buonismo»

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