Le case sghembe di Arakawa per restare sempre in forma
Il visionario delle case invivibili arrivò a New York nel 1961 con 14 dollari in tasca e il numero di telefono di Marcel Duchamp scritto su un biglietto stropicciato. Il numero di Duchamp lo teneva in tasca: lo chiamò dalla cabina telefonica del Jfk, e il semidio del dadaismo gli trovò un divano nel loft di Yoko Ono. Shusaku Arakawa iniziò a disegnare diagrammi, piante e schemi con complessi significati filosofici ed esistenziali: del mondo, coglieva soltanto l’aspetto verbale, le parole scritte, e ne riportava i caratteri in un superfici dipinte in grigio o in bianco, con qualche rara e calibratissima screziatura di colore. Un anno dopo, quando incontrò la sua moglie-musa Madeline Gins, Arakawa cominciò con l’essere ossessionato dalla vecchiaia e dal destino reversibile. Insieme, diventarono architetti di case scomode: pavimenti inclinati, finestre sghembe, stanze asimmetriche disegnate per scioccare i perbenisti più pigri ma soprattutto per esercitare sensi e muscoli e restare sempre giovani. I Seventeen works dell’architetto e pittore giapponese, morto nel 2010, sono esposti alla galleria Minini (via Apollonio), che per presentarli ha scelto qualche riga scritta da M. H. Gins nel 1977: «Quando scrive sull’opera di Arakawa, l’autore deve confrontarsi con tre problemi sin dall’inizio: come trasmettere un’idea dell’argoment o senza nominarlo perentoriame nte; come spiegare il fatto che i dipinti in questione non siano principalmente dei dipinti; come parlare degli aspetti sconosciuti in modo intelligente, senza dimenticare né il rasoio di Occam né il suggerimento di Mallarmé».