Corriere della Sera (Brescia)

Le case sghembe di Arakawa per restare sempre in forma

- Alessandra Troncana

Il visionario delle case invivibili arrivò a New York nel 1961 con 14 dollari in tasca e il numero di telefono di Marcel Duchamp scritto su un biglietto stropiccia­to. Il numero di Duchamp lo teneva in tasca: lo chiamò dalla cabina telefonica del Jfk, e il semidio del dadaismo gli trovò un divano nel loft di Yoko Ono. Shusaku Arakawa iniziò a disegnare diagrammi, piante e schemi con complessi significat­i filosofici ed esistenzia­li: del mondo, coglieva soltanto l’aspetto verbale, le parole scritte, e ne riportava i caratteri in un superfici dipinte in grigio o in bianco, con qualche rara e calibratis­sima screziatur­a di colore. Un anno dopo, quando incontrò la sua moglie-musa Madeline Gins, Arakawa cominciò con l’essere ossessiona­to dalla vecchiaia e dal destino reversibil­e. Insieme, diventaron­o architetti di case scomode: pavimenti inclinati, finestre sghembe, stanze asimmetric­he disegnate per scioccare i perbenisti più pigri ma soprattutt­o per esercitare sensi e muscoli e restare sempre giovani. I Seventeen works dell’architetto e pittore giapponese, morto nel 2010, sono esposti alla galleria Minini (via Apollonio), che per presentarl­i ha scelto qualche riga scritta da M. H. Gins nel 1977: «Quando scrive sull’opera di Arakawa, l’autore deve confrontar­si con tre problemi sin dall’inizio: come trasmetter­e un’idea dell’argoment o senza nominarlo perentoria­me nte; come spiegare il fatto che i dipinti in questione non siano principalm­ente dei dipinti; come parlare degli aspetti sconosciut­i in modo intelligen­te, senza dimenticar­e né il rasoio di Occam né il suggerimen­to di Mallarmé».

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