Corriere della Sera (Brescia)

«El Alamein, io c’ero»

- di Maria Paola Pasini © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Alcuni ricordi sono sbiaditi. Altri sono precisi, puntuali, indelebili. Lui è Orazio Bonvicini, classe 1921, abita a Gavardo in via dei Giroli ed è decisament­e in buona salute. Cammina senza bastone, cura l’orto e tutti i pomeriggi si reca, alla guida della propria auto, al centro anziani di Villanuova per una partita a carte con gli amici. Oramai a ricordare la terribile tragedia di 75 anni fa in cui tanti giovani hanno perso la vita sono rimasti in pochi, tutti ultranovan­tenni. Stiamo parlando della campagna dell’Africa settentrio­nale.

5 anni di guerra Orazio Bonvicini in armi il 21 gennaio ‘41, tornò a casa nel ‘46 dopo 44 mesi di prigionia

Orazio è un reduce, un sopravviss­uto di una delle più note e sanguinose battaglie della storia: quella di El Alamein.

In quella battaglia l’esercito inglese inflisse una pesante sconfitta alle truppe italo-tedesche arrestando­ne l’avanzata verso Alessandri­a d’Egitto.

Gli scontri più aspri si svolsero nel novembre 1942. Orazio viene catturato il 5 novembre: date e giorni che non ha mai dimenticat­o durante la sua lunga vita.

Orazio era partito il 21 gennaio 1941 con la leva della classe 1921. Mesi di preparazio­ne, i corsi a Siena, Lucca, Pordenone e poi la Puglia. Infine la partenza per l’Africa. Lui è assegnato al mitico XIII battaglion­e Ariete con la qualifica di carrista. Con lui sul carro armato Fiat M 13 altri tre compagni: uno di Passirano, uno di Napoli e il terzo di Roma. Durante la battaglia devono scontrarsi con i fortissimi Leopard inglesi. «I nostri carri — ricorda Orazio — al confronto erano di paglia e si sbriciolav­ano». Il loro mezzo, peraltro, si guasta e rimane immobile nella sabbia. È la loro fortuna. Salgono a bordo di altri carri, si disperdono, ma riescono anche a uscire fuori rapidament­e dai mezzi che li ospitano perché rimangono nelle torrette. I componenti degli equipaggi che li ospitano moriranno tutti, bruciati vivi.

«Ho un ricordo tremendo di un soldato giovane come me. Non aveva più le gambe e mi urlava ‘Sparami, uccidimi’, ma io non potevo perché intanto un capitano inglese mi teneva sotto tiro e mi diceva qualcosa che non capivo. Buttai la pistola temendo di ricevere un colpo». Da quel momento inizia la prigionia di Orazio in nord Africa che complessiv­amente durerà 44 mesi. Prima in un campo di concentram­ento vicino a Suez. Qui incontra anche dei compaesani che non ce la faranno: Evelino Facinoli, Angelo Cenedella. Torneranno a casa invece altri gavardesi che ora non ci sono più: Mario Polvara (il padre del provicario generale di Brescia, mons. Cesare), Battista Mora.

La prigionia è dura: «No, noi non siamo stati picchiati, ma si mangiava pochissimo. Ci davano poco e niente. Solo un po’ di minestra, pane, però io non sono mai stato picchiato o forse non ricordo».

Dopo l’8 settembre le cose si mettono meglio. Orazio aderisce alla proposta degli alleati e «passa» dalla loro parte («Sono rimasti coi fascisti solo 16 soldati su 1000») e gli inglesi lo inquadrano in un battaglion­e di cooperator­i. «Eravamo lavoratori a servizio degli inglesi, dovevamo montare le tende dei soldati britannici, io facevo anche l’autista di autobus. Trasportav­o i soldati, però avevamo da mangiare. In qualche occasione speciale con le piastre, le monete che usavamo, riuscivamo a comprare dagli arabi uova e farina e ci facevamo le tagliatell­e».

Qualche episodio è rimasto indelebile. «Una volta è arrivato al campo (nel frattempo eravamo stati trasferiti a Kassassin a 800 chilometri da Suez) un capitano americano. Si mette a confabular­e con i nostri ufficiali. Non ci sembrava niente di buono. “Vedrete che ci mandano a lavorare in America”, disse qualcuno. Invece poi il capitano si avvicina a noi e in dialetto bergamasco ci dice ‘Ghe vergù de Bergem?’. Era un immigrato italiano che si era arruolato nell’esercito americano. Ci ha portato delle scarpe nuove anche se gli inglesi non volevano».

E la collaboraz­ione con i servizi segreti inglesi, di cui ancora si favoleggia in paese? «Diciamo che facevo l’autista ad alcuni ufficiali. Avevo anche imparato un po’ di inglese e facevo tutto quello che mi chiedevano».

Infine il ritorno a casa… «Sì, con un motopesche­reccio. Eravamo in seicento. Era già passato un anno dalla fine della guerra e noi tornavamo a casa solo allora, nel 1946».

E poi? «Poi è stata dura, anche trovare il lavoro. Tanta guerra, tanto patire e poi pochi riconoscim­enti. Cosa abbiamo fatto a fare la guerra se stavamo come prima o anche peggio?».

Carri di paglia I nostri carri Fiat M13 sembravano di paglia e si sbriciolav­ano al confronto con i Leopard In battaglia ricordo un ragazzo come me: non aveva più le gambe e mi chiedeva di ucciderlo

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XIII Battaglion­e Alcuni carristi dell’«Ariete». Bonvicini è il primo a destra in alto

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