Pellico, la libertà gustata a Brescia
Fece tappa al «Gambero», in città davano una sua opera
«Spuntò il 1°d’agosto del 1830. Volgeano dieci anni ch’io avea perduta la libertà; ott’anni e mezzo ch’io scontava il carcere duro. Era giorno di domenica. Andammo, come le altre feste, nel solito recinto. Guardammo ancora dal muricciuolo la sottoposta valle, ed il cimitero ove giaceano Oroboni e Villa; parlammo ancora del riposo che un dì v’avrebbero le nostre ossa. Ci assidemmo ancora sulla solita panca ad aspettare che le povere condannate venissero alla messa, che si diceva prima della nostra. […]. Alle ore dieci le donne si ritirarono, e andammo alla messa noi. Vidi ancora quelli de’ miei compagni di sventura che udivano la messa sulla tribuna dell’organo, da’ quali una sola grata ci separava, tutti pallidi, smunti, traenti con fatica i loro ferri! Dopo la messa tornammo ne’ nostri covili...».
Comincia così nelle Mie prigioni di Silvo Pellico il ricordo di quel giorno particolarissimo; quello in cui, al rientro in cella dopo la messa, a lui, a Pietro Maroncelli e al bresciano Andrea Tonelli, reclusi nello Spielberg, fu comunicata la grazia dell’ Imperatore.
«Al tramonto ritornò il direttore di polizia per trarci di quello sciagurato soggiorno. I nostri cuori gemevano, passando innanzi alle carceri de’ tanti amati, e non potendo condurli con noi! Chi sa quanto tempo vi languirebbero ancora? Chi sa quanti di essi doveano quivi esser preda lenta della morte?», continua il testo che poi rende conto delle tappe verso l’Italia: prima fermata Vienna, dopo aver deposto la divisa carceraria ma in brutte condizioni di salute.
«Partii da Brünn con una difficoltà di respiro penosissima, [...].Giunsi a Vienna semivivo […]. Mi posero a letto; si chiamò un medico; questi mi ordinò una cavata di sangue, e ne sentii giovamento. [...]. Io aveva la più grande ansietà di partire, tanto più ch’era a noi penetrata la notizia delle tre giornate di Parigi».
Ripartito da Vienna il Pellico regge però sino a Bruck. Altro medico e altro salasso («Mi fece cavar sangue, star a letto, e continuare la digitale») e via attraverso la Stiria e la Carinzia dove, dopo un altra sosta forzata a Feldkirchen di cinque giorni, riprende il viaggio non senza mestizia.
«Il rivedere il nostro cielo, l’incontrare facce umane di forma non settentrionale, l’udire da ogni labbro voci del nostro idioma, [...] era un’emozione che m’invitava più al pianto che alla gioia». Oltrepassate Udine, Pordenone, Conegliano, Ospedaletto, Vicenza, Verona, Mantova dove si separa dall’amico Maroncelli («non sappiamo quasi che dirci; un amplesso, un bacio, un amplesso ancora. Montò in carrozza, disparve; io restai come annichilato. Tornai nella mia stanza, mi gettai in ginocchio, e pregai per quel misero mutilato, diviso dal suo amico, e proruppi in lagrime»), ecco il Pellico arrivare a Brescia dove viene liberato il compagno di viaggio Andrea Tonelli che subito viene a sapere d’aver perso la madre: «Le desolate sue lagrime mi straziarono il cuore».
E qui, nella locanda del Gambero, si colloca l’episodio che fa calare la tensione e ci riporta al Pellico scrittore prima che patriota, del quale si dava a teatro in quei giorni a Brescia un melodramma tratto da un suo testo abbastanza noto scritto nel 1814 e più volte musicato.
«Benché angosciatissimo qual io m’era per tante cagioni, il seguente caso mi fece alquanto ridere. Sopra una tavola della locanda v’era un annuncio teatrale. Prendo, e leggo: ‘Francesca da Rimini, opera per musica, ecc.’. ‘Di chi è quest’opera?’ dico al cameriere. ‘Chi l’abbia messa in versi e chi in musica, nol so’ risponde. ‘Ma insomma è sempre quella Francesca da Rimini, che tutti conoscono’. ‘Tutti? V’ingannate. Io che vengo di Germania, che cosa ho da sapere delle vostre Francesche?’...». Il cameriere — «un giovinotto di faccia sdegnosetta, veramente bresciana» — scrive il Pellico, lo guardò sprezzante. «...’Che cosa ha da sapere? Signore, non si tratta di Francesche. Si tratta d’una Francesca da Rimini unica. Voglio dire la tragedia del signor Silvio Pellico. Qui l’hanno messa in opera, guastandola un pochino» — aggiungeva alludendo
Dopo dieci anni di prigionia Il rivedere il nostro cielo, l’incontrare facce umane di forma non settentrionale, l’udire da ogni labbro voci del nostro idioma, [...] era un’emozione che m’invitava più al pianto che alla gioia. A Brescia un cameriere, riconosciutomi, non sapea più altro che pormi gli occhi addosso Silvio Pellico ricevette la notizia della grazia concessa dall’imperatore d’Austria l’1 agosto 1830, dopo dieci anni di detenzione
agli interventi di Paolo Pola e Pietro Generali per quell’edizione — «...’ma tutt’uno è sempre quella’ ».
E il nostro: «... ‘Ah! Silvio Pellico? Mi pare d’aver inteso a nominarlo. Non è quel cattivo mobile che fu condannato a morte e poi a carcere duro, otto o nove anni sono?’. Non avessi mai detto questo scherzo! Si guardò intorno, poi guardò me, digrignò trentadue bellissimi denti, e se non avesse udito rumore, credo m’accoppava. Se n’andò borbottando: ‘Cattivo mobile?’. Ma prima ch’io partissi, scoperse chi mi fossi...». E allora, continua il Pellico divertito: «Ei non sapeva più né interrogare, né rispondere, né servire, né camminare. Non sapea più altro che pormi gli occhi addosso, fregarsi le mani, e dire a tutti senza proposito:’ Sior sì , sior sì !’ che parea che sternutasse’...». Due giorni dopo, 9 settembre, l’ex prigioniero dello Spielberg rivede Milano. Smanioso il suo desiderio di riabbracciarvi «quegli amici ch’io v’avrei rinvenuti ancora», infinito il rincrescimento nel pensiero di quelli «ch’io aveva lasciato sullo Spielberg», «quelli che ramingavano in terre straniere», «quelli ch’erano morti».