Shalom, in aula i ragazzi «in cura» I racconti dei presunti abusi: «Botte e punizioni dagli operatori»
Il «limite» è una linea sottile. Tratteggiata tra quelli che chiamano metodi rieducativi «severi» e condotte che il codice penale definisce reati. Nel processo a carico dei vertici e gli operatori della comunità Shalom per sequestro di persona e maltrattamenti, in aula, ancora, i ragazzi che lì sono stati mandati — dalle famiglie o dal tribunale — per raddrizzare la loro vita: tossicodipendenti, con problemi di alcolismo o gestione della rabbia, di depressione o psichiatrici. Tutti hanno raccontato a vario titolo dei presunti abusi subiti. Delle «punizioni» — «botte, schiaffi e pedate» — inflitte dagli operatori (o dagli ospiti «anziani») «su disposizione di suor Rosalina» (nella foto), l’anima della struttura, «nel caso in cui non riuscissimo a svolgere le mansioni che ci venivano richieste o chiedessimo di andarcene», per esempio. Quindi, «dovevo trascinare la cariola piena di sassi per ore» (qualcuno ha riferito anche delle mani legate) o «saltare per ore gridando “Anch’io ce la posso fare”» o ancora «lavorare per tutta la notte in laboratorio». E quando la stanchezza prendeva il sopravvento? «A volte ci facevano smettere, altre ci picchiavano per continuare». Qualcuno ha tentato di scappare, come una ragazza con problemi di dipendenza da eroina che a Shalom è rimasta dal 2007 (lei ne aveva 16 di anni) al 2013. Diventata maggiorenne è fuggita con un’amica: «Non ce la facevo più, non vedevo la fine. Ma i miei non mi volevano». Le hanno trovate, e riaccompagnate dentro. Poi la seconda fuga, definitiva. Destinazione casa. «Se volete la picchiamo e la riportiamo con noi» avrebbero proposto (invano) a suo padre — che probabilmente sarà chiamato a confermarlo — alcuni operatori della comunità. «Stavo male — aggiunge lei — ma nessuno mi ascoltava. Ho chiesto di fare gli esami del sangue, ma ho potuto vedere i referti solo nel 2013: avevo l’epatite». (m.rod.)