Uccise il fratello (nel’92) e lo bruciò in fabbrica Finisce in manette dopo sette anni di latitanza
La polizia arresta Claudio Cominelli nella casa bresciana della compagna: «Io, vittima di un’ingiustizia»
Lo sguardo fisso, dritto nell’obiettivo. La fronte corrucciata e i poliziotti che lo sorreggono prima di farlo salire sull’auto civetta. Direzione carcere. I capelli rasati e la barba lunga, a dare l’idea del tempo che passa. Lo ricordavamo abbronzato, con la testa piena di riccioli. Era il 2010. Dopo sette anni di latitanza («è stata dura, faticosa, ho dovuto cercare di arrangiarmi e spostarmi continuamente») gli agenti della squadra Mobile della questura hanno intercettato e arrestato Claudio Cominelli, 56 anni: condannato a 24 anni in via definitiva dalla Cassazione — ne scontò solo tre — per l’omicidio del fratello Walter, ucciso a colpi d’arma da fuoco e incenerito nella notte tra il 16 e il 17 dicembre del 1992 in un forno della Valtemper di Caionvico. Sparì proprio dopo la sentenza romana. Fino a ieri mattina.
Fino a quando, alle 7.30 del mattino, la polizia non ferma la donna che gli è sempre rimasta al fianco, la compagna storica, nella sua casa di via Calatafimi, un passo dal centro (e una telecamera artigianale installata all’ingresso). Gli agenti sapevano che sarebbe scesa. La bloccano, si fanno consegnare le chiavi: suonare significherebbe agevolare l’eventuale fuga di Cominelli. Invece lui è lì, in salotto. Cerca invano di nascondersi dietro una porta. «Documenti, prego». «Certo». Consegna una carta d’identità falsa (che riporta le generalità di un bresciano vero) ma il gioco dura una manciata di attimi. Basta accorgersi che i poliziotti stanno iniziando a chiamare in centrale per arrendersi: «Sì, sono Claudio Cominelli». E «sono vittima di una terribile ingiustizia» aggiungerà poi, in questura.
Sette anni. Di espedienti e appoggi. Di messaggi confermati con parte dei familiari («ci siamo tenuti in contatto») e frequentazioni costanti con la donna di una vita. A Brescia, «dove ciclicamente tornava» — spiega il dirigente della Mobile Alfonso Iadevaia — e Ancona, «dove avevo un appoggio vicino al mare», racconta lui. Sette anni in cui Cominelli cerca di mantenere un filo teso con la figlia minore (ne ha tre in tutto, da due madri diverse): comunicano via Skype e su Voip. Al compleanno del padre, il 30 maggio, come in occasione della Festa del papà, lei gli manda i suoi più affettuosi auguri su Facebook: peraltro pare che Cominelli avesse anche le credenziali di accesso per il profilo della ragazza. La matrigna a fare da trade union, per tutti questi anni. Lei che lo aspettava qui in città, o che lo raggiungeva nelle Marche (nel 2016, per esempio, sempre in occasione del compleanno). Lei che gli agenti della Mobile, da aprile, non perdevano di vista: scartata la pista spagnola (valutata a fronte dei precedenti di Cominelli legati al traffico di droga) sapevano che sarebbe stata la compagna a portarli dritti da colui che deve scontare ancora 21 anni dietro le sbarre. Denunciata per favoreggiamento alla latitanza, «l’ho aiutato perché sono certa sia vittima di un clamoroso errore». «Ma sono tornato in città solo pochi giorni fa», spiega lui.
La prima sentenza risale al 2007 — 15 anni dopo il delitto: assoluzione in primo grado. Poi nel 2009 il ribaltone il corte d’assise d’appello: 24 anni. Confermati nel 2010 dalla Cassazione. Fu proprio Claudio a dare l’allarme per la scomparsa del fratello Walter, che non era tornato a casa, la sera del 16 dicembre del ‘92. Alle forze dell’ordine disse di averlo visto per l’ultima volta il giorno precedente, quando lo aveva lasciato nel cortile del suo laboratorio, a pochi metri dalla Valtemper. Proprio dove il guardiano segnalò una deflagrazione nel cuore della notte. Nel capannone c’erano un mazzo di chiavi di casa e un frammento di teca cranica. Di Walter. Sul volto del fratello Claudio, una serie di ustioni: per gli uomini della Mobile l’indizio inequivocabile che si trovasse vicino al forno nel momento in cui il corpo del fratello (voleva eliminarne ogni traccia) provocò la deflagrazione. Inutile tentare di giustificarsi, dicendo che quelle scottature se le era procurate con un crogiuolo in casa: lo trovarono in soffitta, ricoperto da ragnatele, inutilizzato da tempo.
Lo arrestarono. Allora come ieri. Nel mezzo: sette anni. E una generazione di poliziotti per vocazione: «Tra gli agenti della Mobile che si sono occupati della cattura di Cominelli c’è il figlio di un agente che 25 anni fa seguì le indagini per l’omicidio del fratello» dice il dirigente. Con una punta di orgoglio. Per un risultato che arriva «al culmine di un’attività lunga, articolata, coordinata dalla procura generale della repubblica che ha competenza sui latitanti» e fatta di intercettazioni, appostamenti e pedinamenti. Nei mesi scorsi, «nell’ambito di un progetto di selezione di persone su cui pendono pene importanti abbiamo deciso di partire da questo caso. E cercare Cominelli in un contesto familiare allargato che evidentemente lo stava aiutando».
Scocca l’una in punto. E Cominelli esce scortato dalla questura. Sguardo fisso. Verso il carcere.