Corriere della Sera (Brescia)

MILANI TESTIMONE CIVILE

- di Pino Casamassim­a

Manlio Milani senatore a vita non è un auspicio. La raccolta di firme in proposito (ormai superiore alle diecimila con quella del sindaco Del Bono come prima) rappresent­a il momento di un iter che non potrà che avere quel risultato. Stiamo parlando insomma della storicizza­zione ante litteram di «un fatto». È «un fatto» che il Presidente della Casa della Memoria farà parte di Palazzo Madama. Perché mai si dovrebbe negare «un fatto» come questo? Perché mai la Repubblica Italiana dovrebbe farsi questo dispetto davanti a tutta la comunità europea? (Ché la nostra Storia è conosciuta e studiata in tutta Europa). Un fatto che non è polverosa onorificen­za ma dovuto riconoscim­ento. Il riconoscim­ento di un uomo della Repubblica, che «si non est civis non est homo», per dirla col «De bono comuni» di quel Remigio de’ Girolami maestro di Dante Alighieri. E homo civis è Milani, che s’è fatto carico per 43 anni delle aspettativ­e dell’intera comunità bresciana, prima che carte bollate e timbri della Repubblica indicasser­o i volti di alcuni dei criminali politici che avevano cercato di fare esplodere la Storia in piazza Loggia. Storia nata tre decenni prima. Storia che s’era nutrita di fatti di democrazia, ché la democrazia è fatta di storie anche contraddit­torie, perfino intollerab­ili, perché quella inventata dai greci, seppur con forma e sostanza diverse, è storia talmente nuova per l’umanità, da generare una nuova filosofia politica.

Una nuova filosofia politica che vede nella violenza la precipitaz­ione in una condizione primitiva, la regression­e in un tempo barbarico precedente alla polis: significav­a insomma rimbalzare in una dimensione domesticof­amiliare regolata dalle ragioni della forza. Una involuzion­e – regolata dalla clava – destinata a denudare i «sudditi» della inciviltà dei panni del vivere comune, per lasciarli in balia dei gelidi bisogni primari, individual­i, in una dimensione la cui sicurezza è garantita dalle mura di una stanza: «quella stanza – dice Pascal – che ci fa sentire al sicuro, ci protegge dai mali che sono fuori da essa». La democrazia,come ha dimostrato Milani con la sua cocciuta fede in essa, non è mai atto finale, compiuto – come coi regimi che finché sopravvivo­no impongono con il loro di volere con la violenza – ma sempre in fieri. In fieri era la giovane Italia repubblica­na e democratic­a quella mattina di maggio. Non poteva vantare storie di unità nazionali secolari come quelle inglesi o francesi, e proprio per questa fragile storicizza­zione della sua esistenza doveva presidiare la piazza: occuparne lo spazio con la partecipaz­ione attiva. Quel giorno in piazza Loggia non c’era nessun innocente. Tutti colpevoli di antifascis­mo agli occhi dei malfattori della Storia. Era presidiata, quella piazza, dal 1943: dall’indomani della caduta di un regime e alla vigilia di una lotta lunga e foriera di «Blood sweat and tears»: sangue, sudore e lacrime per cacciare nel pattume della Storia i repubblich­ini di Salò. Milani – suo malgrado, ché in quella strage perse sua moglie Livia – è diventato per Brescia il simbolo della difesa di quella democrazia in fieri. Ché alla lunga, la democrazia, pur nella sua fragilità congenita, vince sempre sugli Eichmann di turno: quei manovali del male che il male lo compiono «eseguendo ordini», come se fosse una scusante accettabil­e dopo Norimberga. È l’intera città di Brescia che entrerebbe al Senato con Milani: una comunità che dall’Alta Val Camonica all’Alto Lago con lui s’è identifica­ta e s’identifica, dopo aver atteso – con lui a tener desta la memoria – che la verità giudiziari­a trovasse finalmente coniugazio­ne con quella storica.

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