Addio a padre Antonio, esule d’Ungheria e leader scout
Padre Antonio Izmindy, scomparso dopo una lunga e dolorosa malattia a 84 anni, era nato all’inizio degli anni Trenta in Ungheria, ed ha vissuto, da bambino e poi da adulto nell’età dei totalitarismi del secolo scorso.
In un intenso intervento del novembre 2006, durante un incontro organizzato dalla CCDC, ebbe modo di raccontare se stesso e gli altri giovani del suo tempo. Durante la sua difficile, ma serena infanzia era cresciuto «mangiando patate, fagioli, piselli secchi e pan bruschetta, e la domenica qualche volta anche la carne». Durante la seconda guerra mondiale, viveva in una casa inglobata nel ghetto ebraico.
Per tutti i lunghi anni della guerra egli, per incarico della madre, portava ogni giorno a un vecchio ebreo un piatto di minestra e un pezzo di pane. «Così fui iniziato — raccontava — dai miei genitori a diventare “fuorilegge” per rispettare una legge superiore a quella, spesso ingiusta, degli uomini». Dopo la fine della guerra, si susseguirono l’imporsi del regime comunista, la frequenza a scuola («studiavo poco, ma leggevo tanto» ricordava), l’espulsione dal liceo per le sue convinzioni cristiane, il proseguimento degli studi in Seminario e la rivoluzione del 1956.
Allora accanto a un grande senso di liberazione provò anche tutto l’orrore della violenza. Vide «i cadaveri di due ufficiali della polizia politica, appesi con la testa in giù in una piazza della città, denudati fino alla cintola e sputacchiati. La vendetta disumanizza l’uomo e impedisce giustizia legale. Scappai via dalla piazza di Budapest piangendo dalla vergogna. Ma piansi anche di gioia quando i nostri insorti salvarono dalla folla imbestialita, sparando sopra le teste, un soldato russo disarmato saltato fuori da un’autoblindo».
Appena dopo l’intervento dell’esercito sovietico fuggì da Budapest e giunse a Brescia il 13 dicembre del 1956. Con un sorriso diceva che egli era stato il regalo di S. Lucia per la Pace. Il 6 gennaio 1958 fu ordinato sacerdote nella chiesa della Pace. Iniziò allora una lunga attività di insegnante e aderì con grande impegno allo scautismo. Durante quel periodo vi furono le gite, le chiacchierate serie, le uscite in canotto, il gulash da lui cucinato e le vere crêpes magiare con la marmellata, preparate per i piccoli alunni della scuola elementare della Pace.
Padre Antonio sapeva unire una severità di stampo nordico con una grande comprensione umana, quella che gli consentiva di occuparsi, senza parlarne troppo, degli «ulti- mi» che vivevano a Brescia. «Ero un insegnante severo, anche se col passare del tempo la comprensione e la simpatia per i giovani hanno avuto ben presto la meglio», diceva, tanto da dimostrare per tutti una tenerezza contenuta e per così dire «rude».
Le ultime parole pronunciate in quel giorno del 2006 suonano ora come un vero testamento spirituale. «Spero — affermava — in un mondo più libero e più bello. Odio ogni sistema di pensiero, ideologico o politico-sociale che intenda togliere agli uomini la fatica di cercare con responsabilità la verità, perché questa ricerca è un dovere per ogni uomo e ogni generazione, in ogni momento».