Donatella Di Pietrantonio venerdì sarà in città, a Rinascita La via dell’abbandono
Provando a spiegare le ragioni del successo del suo ultimo romanzo, L’arminuta, Donatella Di Pietrantonio lo attribuisce innanzitutto ai temi trattati. La vicenda è quella di un abbandono drammatico, infatti, ma anche chi non ne ha subito uno tanto grave «può immedesimarsi nell’Arminuta».
È forse questo il filo che lega il romanzo, recente vincitore del Campiello, a Mia madre è un fiume, il romanzo d’esordio (Elliot 2011): la capacità, guadagnata attraverso un linguaggio scarno, «ottenuto per sottrazione» — spiega la scrittrice di rendere condivisibili stati d’animo nati da vicende apparentemente lontane dall’esperienza di chi legge.
Nell’Arminuta, il senso dell’abbandono; in Mia madre è un fiume, il senso di una problematicità irrisolvibile e bruciante che il rapporto con la propria madre lascia nella figlia. Di questa è la voce narrante, che dice dell’assistenza prestata alla madre nell’ultimo periodo della sua vita e cerca di trarne un consuntivo: è stata «una figlia sufficientemente buona», conclude, rovesciando la celebre definizione di Winnicott, perché i ruoli si sono invertiti: ora è alla figlia che spetta il compito di curare la madre.
Ci riesce? A suo modo, in qualche modo. Come tutti quelli che hanno vissuto l’esperienza di accompagnare i genitori nell’ultimo tratto della loro vita, e ne sono usciti stremati, ma soprattutto insoddisfatti, frustrati se non
La scrittrice originaria di Teramo ha vinto il Premio Campiello con «L’arminuta»
addirittura gravati di rimorsi. Tutta la storia di una relazione — una relazione primaria, che non appartiene e non apparterrà mai al passato — precipita in quei mesi, in quelle settimane finali, portandosi dietro tutto quello che l’ha definita sin dai primi momenti dopo la nascita. Ed è allora un bilancio inevitabile quello che si impone, anche se in casi simili «i conti non si chiudono mai».
Così come restano aperti quelli che la protagonista dell’ultimo romanzo cerca di fare non con una ma con due madri, perché lei è ritornata, è stata restituita (questo il significato del titolo): dalla famiglia che l’aveva adottata a quella ve- ra, dalla cugina abbiente ma che non poteva avere figli alla madre biologica.
Ma perché questa restituzione, questo ritorno forzato quando ormai è una ragazzina? Lei — che non può ricordare il passaggio da una famiglia all’altra: aveva pochi mesi quando è avvenuto — non lo sa, ed è il suo rovello.
Non sta tanto nella vicenda il potere di coinvolgimento di questo libro, tuttavia, quanto nel tono della voce che la narra.
Un tono che dice di una sensibilità mortificata, ma che resiste con dignità alla lacerazione inflittale, in questo ricordando Elsa Morante, non casualmente citata in esergo, ed è reso con efficacia da una scrittura che propone l’essenzialità del parlato e sa accoglierne le icastiche espressioni dialettali, frutto di un’arcaicità che non ha abbandonato il costume e la mentalità, di un’esperienza della vita fatta di sopportazione, del sapere maturato in esistenze dominate dalla miseria, ben consapevoli che «la miseria è più della fame».
Tenaci tuttavia, come il bisogno di capire dell’arminuta, che non si scioglie neanche quando nella famiglia cui è stata restituita comincia a trovare rispondenze profonde, se pur laconiche, nella sorella Adriana, e anche nella madre. Figure di donne che da comparse in una scarna vicenda di fatti si fanno via via protagoniste di una storia di sentimenti, dei sentimenti fondamentali che abitano la vita, ogni vita, e non svaniscono, a lettura finita. Perché si tratta — l’espressione è dell’autrice stessa — di sentimenti universali.
Questione di accenti Il tono della voce narrante dice di una sensibilità mortificata eppure dignitosa