La religione imbandita
Da Romanino al Da Cemmo, immagini concrete ma con una forte carica simbolica e liturgica
Riscoprire nell’arte il piacere del cibo. Non lo si può toccare nè assaggiare. Ma vedendolo dipinto, negli affreschi di una pieve o in una pala d’altare fra santi e madonne, ci pare di immaginarne il gusto. Affreschi e dipinti ci conducono dentro la storia, in un viaggio ripercorso da Virtus Zallot, storica dell’arte, lungo il filo conduttore del rapporto fra cibo e arte sacra in Valle Camonica. L’esito di questa ricerca iconografica — promossa da Distretto Culturale e Comunità Montana all’interno del progetto «Banco dei Sapori» — è una pubblicazione, formato tabloid, intitolata «Da mangiare con gli occhi. Il cibo nell’arte della Valle Camonica tra XIV e XVI secolo (e oltre)»: un racconto affascinante che, attraverso Romanino, Da Cemmo e altri illustri artisti, ci permette di osservare le opere d’arte del contesto pittorico lombardo, con un nuovo sguardo.
«La ricerca — spiega Virtus Zallot — prende avvio dalla presenza del cibo nell’arte. Inizialmente avrebbe dovuto orientarsi sul tema iconografico dei banchetti, ma pian piano si è estesa anche ad altri contesti non meno interessanti, come quello dell’offerta a Dio e delle nascite, con il pasto della puerpera».
Che cosa dimostra questa varietà di raffigurazioni in contesti diversi?
«Innanzitutto la centralità del tema del cibo, che ci rivela molti dettagli su usi e costumi delle diverse epoche, avvalorando il ruolo dell’arte come documento storico». Esiste un filo conduttore fra queste opere camune?
«Emerge a mio avviso un’evidente concretezza nella modalità di rappresentazione del cibo, un cibo che si mangia, per nulla astratto, reale. Ed è una dimensione che coesiste con quella del cibo metaforico. Troviamo quindi una doppia valenza, tipicamente medievale, per cui l’elemento materico serve a dare forma ad altri significati. E aiuta a leggere dietro l’evidenza delle cose».
Nell’arte sacra quale ruolo simbolico assume il cibo raffigurato?
«Ce lo dicono le fonti bibliche, nelle quali il cibo e il suo consumo sono sempre presenti, nella loro valenza rituale
e simbolica. Ma il cibo è un tema molto complesso: indica anche un’occasione sociale e cultuale».
La Valle Camonica rivela un’interpretazione originale lungo questo filone?
«I modelli rappresentati hanno una dimensione nonlocale e indicano convenzioni iconografiche di un contesto più ampio. Ma credo che sia un elemento a favore: significa che in Valle esisteva una circolazione aggiornata di schemi e riferimenti, che comunque rispetto all’area bresciana qui sono molto numerosi. Si tratta di un “museo diffuso” che non ha niente da invidiare alle opere che si possono ammirare in città».
Cosa ci rivela il cibo sulla società camuna dei secoli passati?
«Offre molti spunti sugli usi e sulle abitudini, sulle buone maniere e il modo di apparecchiare la tavola. Ma è comunque inserito in una tradizione iconografica che non è solo camuna, come dicevo. Abbiamo una contestualizzazione
storica più che geografica».
Lei nel suo libro dedica un capitolo a Franca Ghitti, artista contemporanea che molto ha operato in Valcamonica. Quale è il legame con il contesto storico medioevale?
«Ci sono molte analogie fra arte medioevale e arte contemporanea. Franca Ghitti rivela una vicinanza concettuale con l’ambito medioevale, a partire dal tema dell’offerta del cibo a quella dell’allestimento. Si pensa spesso che il Medioevo sia un’epoca remota e buia, ma erroneamente. È un periodo molto vicino invece alla società contadina ed è qualcosa di ancora vivo. Franca Ghitti ha saputo riallacciarsi artisticamente a questo medioevo “lungo”, mai finito, che, in fondo e per certi aspetti, continua ed è ancora presente».
Le opere documentano le buone maniere e il modo di apparecchiare la tavola in passato