Ragazzini «messi alla prova» Brescia fa scuola, quarta in Italia
Brescia quarta in Italia per provvedimenti alternativi al carcere a carico di minori
Una seconda chance che «congela» il procedimento penale in corso e, d’accordo con lo Stato, consente un percorso di recupero sociale e riscatto personale. A patto che ci si renda utili alla collettività. A Brescia lo strumento della «messa alla prova» per i minorenni funziona: lo dicono i numeri del 2016.
Era la sera del 19 ottobre 2008. E loro in cinque, in giro per Desenzano: un ragazzo di 20 anni e quattro minorenni. Tutti finiti a processo per l’omicidio di «Ombre», senzatetto della zona visibilmente alterato, pare, dall’abuso di alcol. Lo spinsero nel lago e, quando riemerse, lo colpirono per evitare risalisse. Cinque giorni dopo fu trovato il suo corpo. L’unico maggiorenne del gruppo è stato condannato a 21 anni in via definitiva. Agli altri, invece, il sistema Giustizia ha deciso di dare una seconda chance (non senza polemiche): mettendoli alla prova. Nessun processo. E ha funzionato, conferma anni dopo chi con loro ha avuto a che fare. Non si sono più cacciati nei guai.
E questo è solo un esempio, forse uno dei più noti a Brescia degli ultimi anni, dei tantissimi provvedimenti di «messa alla prova» nei confronti di ragazzini che infrangono la legge: istituito nel 1988 per i minorenni e in tempi più recenti, per i maggiorenni, nel 2014, tecnicamente si tratta di una decisione che «congela» il procedimento penale in corso. Formulando una sorta di «accordo» tra lo Stato e l’imputato che in qualche modo si impegna ad affrontare fino in fondo il percorso di recupero concordato. Se l’esito sarà positivo, allora il reato verrà estinto. Dimenticato. E se per i minori non ci sono limiti in termini di condanne e tipologia di illeciti (come nel caso dell’omicidio di Desenzano), per gli adulti, invece, la messa alla prova è applicabile solo una volta e soltanto per quei reati commessi che non prevedano una pena superiore ai quattro anni.
Brescia docet. Il nostro distretto giudiziario è sempre stato all’avanguardia sotto questo aspetto. Non a caso, quindi, nella «classifica» riferita al 2016 Brescia si piazzi al quarto posto a livello nazionale, con 227 provvedimenti di messa alla prova emessi (226 su disposizione del Tribunale dei minori e uno dalal Corte d’appello sezione minori). Al primo posto Milano con 291 applicazioni, seguita da Genova (274) e Firenze (264).
Ma se in Italia dal 2015 si registra un aumento addirittura del 12,5% di messe alla prova su minori dal 2015 al 2016, Brescia va in controtendenza. Perché nel 2012 i nostri uffici giudiziari hanno confermato 153 provvedimenti, scesi a 138 nel 2013, risaliti a 190 nel 2014, fino al «picco» nel 2015 con 275 messe alla prova.
Così come da fotografia nazionale, anche nel distretto — conferma il capo procuratore dei minori Emma Avezzù — i reati più diffusi per questo tipo di percorso riabilitativo sono furti, rapine e spaccio di stupefacenti. Ed è lei stessa a precisare come la messa in prova non sia una semplice alternativa. Piuttosto, «uno strumento concreto per estinguere il reato attradato verso una condotta attiva, quindi che non sia subita: lavoro, studio o attività di volontariato non importa». Anche «la permanenza in una Comunità». Basta si realizzi «un percorso positivo»: di riscatto personale, ma anche di conforto sociale. Perché la condizione sine qua non di questo istituto giuridico è apparentemente molto semplice: «Rendersi utili alla collettività». Come, va stabilito «considerando prima di tutto l’offerta sul territorio» e nel Bresciano sono state sottoscritte parecchie convenzioni, «oltre, là dove possibile, l’inclinazione del ragazzino in questione». Lasciando da parte pregiudizi e scetticismo. Perché «devo dire che da noi la messa alla prova ha buonissimi risultati anche con i minorenni stranieri, nonostante i potenziali problemi di comunicazione per la lingua o di integrazione, oppure ancora quando ci si scontra con i genitori che magari avrebbero voluto mandare il figlio a lavorare per farlo guadagnare» e in tutti quei casi in cui magari siano state riscontrate situazioni di disagio o isolamento familiare che «potevano farci esitare». Invece è stato un successo. Anche perché, «soprattutto nei confronti dei ragazzini che non hanno alle spalle il sostegno di una famiglia, quando la messa alla prova va a buon fine la soddisfazione è ancora più grande».
Come è successo a quell’adolescente nordafricano, 16 anni, che dopo due tentate rapine è stato messo, appunto, alla prova. Lui voleva solo una cosa: andare a scuola. «E allora ha continuato a studiare (ovviamente servono buoni voti). E grazie all’aiuto di qualche associazione di industriali, se non ricordo male, ha trovato anche un lavoro. E ha iniziato a vivere da solo, in un appartamento in semi-autonomia». Altri, di ragazzini, «hanno contribuito alla cura del verde pubblico, aiutato anziani, lavorato in biblioteca, fatto i volontari in canile o insegnato a giocare a calcio ai bambini». Non vale, chiaramente, una sorta di «legge del contrappasso» al contrario, vale a dire che se un ragazzino tortura un animale raramente finirà in un rifugio per cani e gatti, insomma. Ma capita: dipende. Bisogna saperli capire, questi ragazzini. All’inizio spesso i baby indagati storcono il naso, ma ovvio, meglio di finire in cella, pensano. Poi capita che qualcuno ringrazi chi gli ha dato questa possibilità, si ravveda e si senta finalmente apprezzato da chi finisce poi per considerarlo un punto di riferimento.
Le statistiche nazionali dicono che la messa alla prova ha esito positivo in oltre l’80% dei casi, con una recidiva che sfiora il 20% dopo 72 mesi. Quanto agli adulti, al 30 novembre 2016 erano in 9.046 «in prova», con 11.708 istanze in attesa.
Avezzù Bisogna trovare il giusto equilibrio tra l’offerta del territorio e le inclinazioni: buonissimi risultati anche con i ragazzini stranieri