La famiglia Cenini diede rifugio a due ebrei nella soffitta di Chiari
Madre e figlio milanesi furono nascosti per 14 mesi
A Chiari per 14 mesi dal novembre del 1943 e fino alla Liberazione furono aiutati due ebrei milanesi. Il merito principale è di Pietro Cenini e della sua famiglia. Quelle gesta ora sono al vaglio della commissione per i Giusti tra le nazioni.
La soffitta di Prinsengracht 267 ad Amsterdam è meta di pellegrinaggi da tutto il mondo. Lì Anna Frank trascorse nascosta due anni della propria vita, fra i 13 e i 15 anni. Lì scrisse il suo memorabile Diario prima dell’arresto e della deportazione. Ma ci sono anche altre soffitte, più vicine a noi, che furono teatro di vicende altrettanto dolorose destinate, però, a un lieto fine. È il caso della soffitta di via Mazzini 17 a Chiari, nell’abitazione che confina con Villa Mazzotti: lì, per 14 mesi, trovarono rifugio, ed ebbero salva la vita, due ebrei milanesi — madre e figlio — e se Chiari si dotasse di un Giardino dei giusti, come hanno fatto tante altre località anche bresciane, i nomi dei fratelli Pietro, Giuseppe e Angelo Cenini, della loro mamma Santina Bottinelli e del loro cugino don Giacomo Cenini dovrebbero trovarvi ricordo imperituro. Perché se due perseguitati — Luciano Pavia e sua madre Irma Levi Pavia — si salvarono, il merito è di questa famiglia coraggiosa e schiva che fino ad oggi ha ascritto quei gesti alle cose che «andavano fatte».
Una somma di gesti che solo ora, a ridosso della Giornata della memoria del 2018, acquista evidenza e valore.
Il merito è di Andreina Cenini, figlia di Pietro (nel dopoguerra fu senatore per tre legislature e sindaco di Chiari per 25 anni), maestra in pensione che all’epoca dei fatti aveva 13 anni. Durante un viaggio a Gerusalemme, giunta alla tappa consueta del Museo della Shoah, sentendosi porre dalla guida la domanda circa la conoscenza di persone che avessero salvato ebrei durante la guerra, la maestra Andreina ricordò una vicenda di cui era stata testimone e decise di proporre il proprio genitore per entrare nel Giardino dei giusti di Gerusalemme, in questo spronata da Angelo Baronio, storico e insegnante presso la Cattolica di Brescia, parente acquisito di casa Cenini.
«Mio padre era un antifascista noto — ricorda la maestra Andreina — e dopo l’8 settembre del 1943 aiutò numerosi ebrei e soldati cechi ex prigionieri di guerra a raggiungere la Svizzera passando dalla Val Cavallina».
Quando però, dopo la nascita della Rsi, il 13 novembre del 1943 Cenini trovò dipinti due teschi sulla propria casa nei pressi della stazione di Chiari, in via Matteotti, interpretò giustamente quel segno come un avvertimento e riparò a Lumezzane, nascosto presso la famiglia Bonomi per la cui azienda lavorava. Fece bene perché subito dopo a cercarlo a casa a Chiari vennero SS e repubblichini.
Calmatesi le acque, dieci giorni dopo, a casa Cenini bussò una cugina di Castelcovati, Maddalena Ninì Secchi, che lavorava in un cotonificio di Ponte Lambro. Non era sola. Con lei c’era Luciano Pavia, allora trentaduenne: un collega
Andreina Cenini Le motivazioni alla base di quell’aiuto? Il rispetto per la persona e il diritto di vivere liberamente
di lavoro a cui era legata sentimentalmente. Con lui c’era l’anziana madre — da poco vedova — Irma Levi Pavia. I due ebrei erano scampati a un primo rastrellamento nel Milanese proprio con l’aiuto di Ninì Secchi. La moglie di Pietro Cenini, Santina Bottinelli, non esitò a dar corso alle disposizioni del marito lontano: accogliere, aiutare, soccorrere. Madre e figlio trovarono ospitalità per due settimane a casa di Pietro Cenini.
Nascondersi in casa di un antifascista noto e perseguitato significava però moltiplicare i rischi per tutti ed è per questo che i due ebrei fuggiaschi vennero trasferiti nella soffitta di via Mazzini, sempre a Chiari. In quella casa abitavano la mamma di Pietro Cenini, Lucia Secchi, con i figli Giuseppe e Angelo Cenini. Furono loro a nascondere i due perseguitati per quindici mesi, fino al marzo 1945. «I miei zii riparavano macchine agricole, la loro casa era molto frequentata, ma riuscirono a tenere nascoste in soffitta queste due persone. Uscivano sulla terrazza a prendere un po’ d’aria solo di notte, quando nessuno poteva vederli». Nel marzo del ’45 anche questo rifugio non era più sicuro: «Arrivò una lettera anonima che insinuava che in casa si nascondevano ebrei».
A quel punto Luciano Pavia venne fatto riparare presso don Giacomo Cenini, curato del paese, uomo ascetico e al di sopra di ogni sospetto, mentre l’anziana madre rimase a casa Cenini. Ormai però era questione di poche settimane: il 25 aprile Luciano Pavia potè tornare libero.
Irma Pavia Levi morirà dopo poco tempo. Luciano Pavia, invece, sposerà la fidanzata del tempo di guerra, Ninì Secchi, e con lei si trasferirà in Veneto dove è deceduto, ormai 95enne, nel giugno del 2006 a Bassano del Grappa.
Diventati parenti, né i Pavia né i Cenini sentirono mai il desiderio di rendere pubblica la vicenda che solo ora viene a galla. Andreina Cenini non ha dubbi circa i valori che spinsero a questo eroico salvataggio: «Quali motivazioni spinsero mio padre e gli altri parenti, da lui sollecitati, ad aiutare gli ebrei? Innanzitutto il rispetto della persona e il diritto di ciascuno di esistere e di vivere liberamente la propria vita, l’essere antifascisti e il fatto di giudicare nefaste le leggi razziali e le conseguenti persecuzioni degli ebrei e di altri». Riletta oggi, quella vicenda assume contorni di altissima umanità: «Non badarono al rischio che correvano: importante era aiutare chi era in pericolo, mettendo in pratica il comandamento cristiano “Ama il prossimo tuo come te stesso”».
Non tutti i giusti sono onorati a Gerusalemme. Alcuni sono ancora in attesa di riconoscimento, come i Cenini. A Gerusalemme. Ma pure a Brescia e a Chiari.