Corriere della Sera (Brescia)

Processo Shalom, i giudici andranno in comunità

L’esperto: «Sì a lavoro fisco e privazione del sonno. Se non sono schiavitù»

- Di Mara Rodella

Prima di sentire gli imputati accusati di maltrattam­ento e sequestro di persona i giudici, insieme alle parti, andranno di persona nella comunità Shalom di Palazzolo, a maggio. In aula ieri hanno parlato gli ospiti che «ce l’hanno fatta»: «Per noi quella era una casa. E suor Rosalina una seconda mamma, che ci ha salvato la vita».

Se l’idea non l’avesse buttata lì in mattinata il presidente della prima sezione penale (Roberto Spanò), gliel’avrebbe proposta la difesa. Nero su bianco, la data è stata decisa a fine udienza, nel pomeriggio inoltrato. A maggio il collegio giudicante, insieme alle parti, andrà di persona nella comunità Shalom di Palazzolo. Per vedere gli ambienti e la dislocazio­ne degli spazi (alloggi, laboratori e la tanto discussa legnaia) da mesi al centro delle udienze nel processo a carico dei vertici e gli operatori della struttura: 42 imputati di maltrattam­enti e sequestro di persona. Dopo il sopralluog­o, l’esame degli imputati — prima tra tutti l’anima di Shalom, suor Rosalina Ravasio — e la discussion­e del pm.

Ieri, per oltre cinque ore, è toccato a chi «ce l’ha fatta» raccontare la propria esperienza in comunità. Come la ragazza a cui mancano cinque esami alla laurea in giurisprud­enza che sogna di diventare un pubblico ministero, il giovane che dopo sette anni di terapia lavora a Shalom come falegname con tanto di stipendio, la mamma che lì ebbe la sua seconda figlia e chi, in comunità, ci vive ancora.

Tutti ne parlano al presente. E quasi tutti ancora la frequentan­o nel tempo libero. La maggior parte dei testi ci è rimasto per anni dopo essere entrato per problemi di tossicodip­endenza. E «mai ho visto gli educatori mettere le mani addosso ai ragazzi» hanno assicurato. Sotto processo, come più volte sottolinea­to dal presidente, non c’è la comunità in quanto tale. Ma la linea di demarcazio­ne tra la severità dei mezzi di correzione e il reato di maltrattam­ento perpetuato dai singoli. Il punto sembra però (almeno dalla prospettiv­a difensiva) il modo in cui determinat­i «provvedime­nti» — che le parti offese definiscon­o «punizioni» sproposita­te — sono stati vissuti dagli stessi ospiti.

«Certo che ho fatto fatica all’inizio. Nessuno è contento di restare in comunità. Il problema è dato dalle piccole cose quotidiane: alzarsi la mattina, rispettare gli orari, lavorare». Poi «Shalom è diventata casa mia. E suor Rosalina una seconda madre che ci ha salvato la vita, anche con i suoi modi bruschi e le parolacce, solo per spronarci a reagire». I ragazzi, più o meno giovani, hanno raccontato dei laboratori, delle chiacchier­ate con «i vecchi che cercavano solo di aiutarci a sfogare la rabbia e le emozioni», della possibilit­à di uscire. «I maggiorenn­i potevano andarsene». E allora perché scappare (come tanti hanno fatto)? «Perché era più facile. Per la paura di affrontare la famiglia e le strigliate di suor Rosalina, che cercava di convincere gli ospiti a rimanere. Altrimenti, restituiva loro i documenti in modo che andassero, ne ho visti tanti», dice uno di loro.

«Io per prima sono scappata, avevo 16 anni», racconta la studentess­a che adesso sogna la toga. «Eppure quando mio padre mi ha trovato e chiesto se volessi tornare a casa ho risposto di no. Avevo capito che per me la cosa migliore era tornare in comunità e finire il mio percorso. E così è stato» ha ricordato. Spiegando che fare la legna, spingere la carriola o parlare fino alle tre del mattino «altro non erano che modi per allontanar­e ragazzi e ragazze aggressive dagli altri per evitare potessero avere una cattiva influenza, farli sfogare anche fisicament­e e parlare con loro per ore». Dicono funzionass­e. Ribadiscon­o che ad essere «violenti» non erano gli educatori, ma alcuni degli ospiti, mamme con figli privati dal cibo comprese. Perché io, come tanti altri, «ce l’ho fatta».

Ultimo a prendere parola, chiamato dalla difesa, Massimo Bizza, psichiatra di profession­e. Ha visto le «cartelle» di tutte le parti offese. E parlato,

Le punizioni Per i ragazzi la fatica e il lavoro erano «un modo per sfogarsi e calmarsi. E funzionava»

Lo psichiatra «Il problema di persone con disturbi di personalit­à è il rifiuto dell’autorità altrui»

teoricamen­te, di un minimo denominato­re comune: «I disturbi della personalit­à e la totale incapacità di sopportare la frustrazio­ne e di posticipar­e la gratificaz­ione. Quindi, di sottostare all’autorità: della famiglia, della scuola, degli operatori di una comunità». Tali da «giocare un ruolo importante nel giudizio, pur sincero». Obbligare «all’attività fisica con un tutor che tiene aperto un canale di comunicazi­one e favorisce un dispendio di energia è una valida alternativ­a ai farmaci. Così come la privazione del sonno contro la depression­e. Se non diventano schiavitù chiarament­e».

Il punto resta — per l’esperto — «il fatto che le stesse esperienze possono essere viste in modo opposto: tollerabil­i e consigliab­ili per chi ne è uscito, la ragione del proprio insuccesso per chi non ne ha tratto beneficio».

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Shalom Suor Rosalina con un cane

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