Gli anni intrepidi dell’impegno
Un diario minimo, un breviario degli affetti e delle passioni. Dalla postumità ci giunge un tesoretto in forma di plaquette, uno zibaldone di appunti, ricordi e moralità. Renato Borsoni è scomparso da un anno e in occasione del primo anniversario la Fondazione del Teatro Grande cura la pubblicazione di un quaderno con alcuni suoi ultimi scritti.
Renato non apparteneva agli strimpellatori della tastiera, era un nativo cartaceo, uno degli ultimi mohicani tra gli amanuensi. Immagino, mi piace pensare, che queste note le abbia vergate con quella sua Mont Blanc magnum che una volta gli spuntava dal taschino della giacca, ma che anche in tempi recenti brandiva con amore. Per lui la stilografica era come un utensile per l’ebanista, un ferro del mestiere, non certo un ninnolo da gioielleria.
Una premessa d’obbligo sul titolo, Gente di teatro, tanto e solo per fare un po’ di ecologia della parola. Sembra banale come una parafrasi, e invece è perfetto. Gente non allude al sottoproletariato cognitivo della piazza populista contemporanea, ma pesca nelle radici glottologiche: un nome gentilizio (la gens Claudia, per esempio) come si addice alla gente di teatro, che è una tribù dei sentimenti, una nazione indiana che abita l’altrove e non la riserva.
In queste pagine Renato racconta la sua straordinaria avventura a teatro. Una carrellata o un album fotografico da sfogliare con tutto l’equipaggio che l’ha accompagnato nel suo cammino: un ensemble di grandi solisti, violinisti di seconda fila, ragazzi del coro, garzoni della cattedrale. Alcuni hanno un camerino tutto per sé, altri attraversano la scena.
L’allusione alle vecchie fotografie, alcune virate in seppia, fa inevitabilmente pensare allo sguardo marmorizzante della Medusa, alla morte al lavoro di Barthes. E anche no, come ha dimostrato Helena Janeczek in un suo bel romanzo (La ragazza con la Leica), in cui una fotografia che inquadra Robert Capa e Gerda Taro rappresenta l’alito eterno della giovinezza, l’energia civile del cambiamento.
Sono stati anni intrepidi per impegno e partecipazione quelli vissuti da Borsoni, che qui vengono rievocati lungo il filo di ragno della memoria che lega emozioni, comprimari e figurine dimenticate ma di assoluta dignità. La galleria inizia con Mario Parravicini, factotum e teatrante proteiforme, e si conclude con una gustoso aneddoto metateatrale di Peter Stein, regista prestigioso. In mezzo tanti camei, o meglio disegni, come chiosa il prefatore Umberto Angelini, perché Renato è artista del disegno, uno che annota con i segni. Segni che sono una toccata e fuga, noi a inseguire. Segni che si dilatano in mappe concettuali ed alludono a storie più complesse, tra strappi di biografia e tocchi di poesia.
Nella sfilata compaiono Massimo Castri, alfiere di una lunga stagione che ha fatto epoca, Piera degli Esposti e Valeria Moriconi, due leonesse che non si sopportavano, Arnaldo Milanese, flaneur che assomigliava a Moustaki, Babi, sarta di compagnia e «libellula grigia», Alida Valli, la divina che meritava la colazione in camera, il genio operaio di Pieremilio Gabusi, i musicisti Camillo Togni e Giancarlo Facchinetti, gli incontri sfiorati con Domenico Modugno e Carmelo Bene. E ancora, i fratelli Lievi, Aldo Engheben, Gigi Cristoforetti, Bruno Boni, Tino Bino, l’uomo delle istituzioni che ai selfie preferisce la politica delle buone pratiche. E tanti altri.
Fuori scena, ma insider, Renato Borsoni ovviamente, il creativo dalle grandi intuizioni, il maestro dei maestri — così lo chiamava Castri — e il nostro Bibi Ballandi, il manovratore, il demiurgo, l’uomo che non lesina la tenerezza e fa le scelte esatte, guardando in faccia il futuro, perché le grandi idee hanno bisogno dei risultati della matematica.