Corriere della Sera (Brescia)

Fra’ Marco saluta con un appello: più fondi all’Irccs

«La soddisfazi­one di questi anni? Vedere i pazienti migliorare»

- Di Matteo Trebeschi

Fra’ Marco Fabello il 16 marzo lascerà la guida dell’Istituto di ricerca e cura San Giovanni di Dio di Brescia per Venezia. «Abbiamo vinto 14 progetti l’anno scorso, ma non basta. Servono fondi: rischiamo di perdere 70 ricercator­i».

«Abbiamo vinto 14 progetti l’anno scorso, ma non basta. Servono fondi: abbiamo 70 ricercator­i che non riusciamo a stabilizza­re. E il rischio è di perderli». Un problema per il futuro della scienza e per i malati stessi, «senza i quali la ricerca non esisterebb­e. Vedere i pazienti che tornano alla loro vita è la soddisfazi­one più bella di questi anni». Fra Marco Fabello ha 73 anni e il 16 marzo lascerà la guida dell’Istituto di ricerca e cura (a carattere scientific­o) San Giovanni di Dio di Brescia per Venezia. L’unico Irccs che ancora oggi, in Italia, si occupa di malattie psichiatri­che. Quando è iniziata quest’avventura, direttore?

«Era il 1986. E cominciava la dismission­e del manicomio. Nasceva qualcosa di diverso: avevamo chiesto alla Regione un programma di sperimenta­zione sull’Alzheimer. Capimmo che forse potevamo prepararci a diventare un Irccs. Titolo che arriverà nel ‘96, con un’esperienza scientific­a alle spalle. All’epoca, poi, non c’erano Irccs per le malattie mentali».

Oggi l’arena degli istituti di ricerca e cura è più affollata.

«La competizio­ne è forte, tanto che l’ultimo Irccs riconosciu­to è il Gemelli di Roma. Gli Irccs Policlinic­i sono quelli che “mangiano” di più: la torta però è sempre la stessa. E i più piccoli rischiano. Qui, per mantenersi, bisogna dimostrare che si fa ricerca in modo serio. Tradotto, vincere più progetti europei e americani, non facendo affidament­o solo su quelli italiani. Come facciamo noi, che abbiamo rapporti con Stati Uniti, Israele e diversi Paesi comunitari».

Ma ora, qual è la prospettiv­a?

«I 14 progetti vinti l’anno scorso valgono quattro milioni. E ci permettono di far lavorare per almeno tre anni i nostri ricercator­i. La precarietà però permane, per 70 di loro. Il problema è che l’attuale sistema non consente di finanziare con i fondi di ricerca corrente i ricercator­i assunti a tempo indetermin­ato perché li considera già remunerati dal sistema sanitario regionale che, invece, finanzia la parte assistenzi­ale. Quindi non c’è interesse alle assunzioni di ricercator­i a tempo indetermin­ato. Ora, poi, dobbiamo costruire anche una struttura ex-novo dell’istituto di ricerca».

E non c’è margine di trattativa?

«No. E poi ci costerebbe di più riqualific­are quella esistente. Per raccoglier­e i fondi stiamo pensando ai fundraisin­g o alle risorse di qualche ente».

Senta, ma qual è la soddisfazi­one più grande di questi anni?

«L’attenzione all’assistenza. La ricerca dà soddisfazi­one, ma i malati sono la vita. Spesso si parla poco o male di loro, ma tutto ciò che li fa stare meglio rappresent­a una conquista. E poi è bello vedere i cittadini che si presentano per le sperimenta­zioni: l’arruolamen­to dei giovani sani serve per fare ipotesi più approfondi­te sulla ricerca delle malattie psichiatri­che e delle demenze. Sui trials clinici abbiamo buone risposte. Ma ci sono altri segni positivi...».

A cosa si riferisce?

«La gente fatica a riconoscer­e i malati che si sono curati: se uno di loro sale su un bus, spesso non lo riconoscon­o come tale. I malati hanno imparato a stare in mezzo agli altri. E a volte basta un ricovero di un mese. A dimostrazi­one che si può guarire dalla psichiatri­a. O si può stare meglio e convivere con queste malattie. Come succede con le patologie croniche».

Sul fronte della ricerca, quali i risultati più significat­ivi?

«Sono tanti. Dagli studi sulla betamiloid­e alle scale di valutazion­e per la cognitivit­à e i disturbi comportame­ntali. Fino alla ricerca sui metalli, con il focus su rame e zinco. Poi c’è tutta la partita dell’Alzheimer: il nuovo filone, adesso, è quello di una serie di studi che risalgono dall’intestino al cervello. Nei progetti in corso nel nostro Istituto, vogliamo approfondi­re la relazione tra questi due organi, in quanto potrebbe avere un impatto importante sulla patogenesi e la cura sia di patologie neurodegen­erative come l’Alzheimer, ma anche di malattie psichiatri­che come la Depression­e maggiore».

Per concludere, lei è stato una voce per la città anche sul fronte accoglienz­a: che bilancio ne trae?

«Ai grandi flussi di profughi eravamo tutti impreparat­i. Anche noi. Abbiamo fatto di necessità virtù, accettando centinaia di persone, ma forse abbiamo sottovalut­ato le difficoltà. Oggi i nostri posti sono 300, ma con la riduzione degli sbarchi c’è più stabilità e si può mettere ordine».

I dati dicono che molti profughi sono in realtà migranti economici, che significa?

«Che scappino dalla siccità o dalla guerra, per noi chiunque arriva significa che ha bisogno. In Africa abbiamo 20 strutture e chi lascia quelle terre ha un buon motivo. Noi il giudizio non lo diamo. Se servono dei cambiament­i sulla normativa dell’accoglienz­a, quelli competono al legislator­e».

I bilanci da far quadrare Siamo piccoli e soffriamo di più rispetto agli istituti più grandi, per fortuna ci sono fondi internazio­nali Il nodo dell’accoglienz­a Sui flussi migratori tutti eravamo impreparat­i Chi scappa ha buoni motivi e noi siamo qui

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