Green Hill, beagle uccisi senza bisogno
Potevano essere curati, quei cani non dovevano essere uccisi. Anche per questo la Cassazione ha confermato le condanne ai vertici dell’allevamento Green Hill di Montichiari. Anche per i giudici romani i beagle sono stati sottoposti a pratiche «insopportabili» con «scelte precise e consapevoli».
Nell’allevamento Green Hill di Montichiari, 2.639 beagle destinati alla sperimentazione furono sottoposti a trattamenti sfociati in «comportamenti insopportabili per le loro caratteristiche etologiche» e, a volte, «a eutanasia» per «patologie modeste e dopo terapie troppo brevi per le scelte aziendali di non curare in modo adeguato gli esemplari affetti da demodicosi e di non somministrare flebo a quelli con diarrea». Così la Cassazione chiude il processo che il 3 ottobre scorso ha condannato in via definitiva a pene tra un anno e un anno e mezzo il direttore dell’allevamento Roberto Bravi, il veterinario Renzo Graziosi e Ghislaine Rondot, ad della Marshall. Nelle motivazioni della sentenza la terza sezione penale della Suprema Corte condivide le conclusioni dei giudici d’appello di Brescia, per i quali i beagle furono sottoposti a pratiche «insopportabili». «Senza necessità», inoltre, «se non quella di liberarsi di beagle non più vendibili sul mercato», gli imputati ne hanno in alcuni casi «cagionato la morte con eutanasia». Inammissibili i ricorsi delle difese, per le quali «la funzione sociale dell’allevamento a fine di sperimentazione va ritenuta prevalente nel bilanciamento con il benessere dell’animale». Vi sono state, per la Corte, «consapevoli e precise scelte decisionali di violare le corrette regole di tenuta dell’allevamento adottate da soggetti dotati della competenza tecnica per comprenderne le conseguenze negative sugli animali. E il dolo degli imputati emerge con chiarezza anche dalla corrispondenza tra gli stessi». (m.rod.)