L’appello di Elena ad Antonietta: coraggio, tornare a vivere si può
Nel 2012 Brescia come Cisterna. «Ma non saremo più le stesse»
«Tornare alla vita si può, ma bisogna trovare dentro di sé la forza per riuscire a farlo». Elena Morè «parla» ad Antonietta Gargiulo, che solo nelle ultime ore ha saputo della morte delle figlie per mano del padre, a Latina. Anche i suoi piccoli angeli morirono nel maggio del 2012: il marito li gettò da una finestra del sesto piano della palazzina in via Cremona dove vivevano. «Non ceda ai sensi di colpa, non ne ha».
Da Brescia a Latina il filo sottile sul quale si aggrappa un dolore indicibile fa tappa a Cesena. Perché è lì che da qualche anno vive Elena Morè, che oggi ha 45 anni: nell’ultimo folle e spietato abbraccio il 21 maggio del 2012 suo marito gettò i loro bambini (Samuele, 4 anni, ed Emanuela, 14 mesi) da una finestra al sesto piano della palazzina di via Cremona in cui vivevano, prima di lanciarsi a sua volta nel vuoto. Lei, Elena, lottò. E riuscì a divincolarsi grazie all’intervento di un vicino: «Ma quella finestra era anche per me. Saremmo spariti tutti», dice.
La voce ferma, la gentilezza di sempre, l’autoironia che «insieme all’aiuto degli specialisti e all’amore delle persone che mi sono vicine» l’ha aiutata a rialzarsi in piedi. «E spero tanto ce la faccia anche Antonietta, perché tornare a vivere si può», si emoziona pensando alla signora Gargiulo, che nei giorni scorsi ha perso i suoi angeli — Alessia di 13 anni e Martina di 7 — uccise il 28 febbraio per mano del marito, e carabiniere, Luigi Capasso, da cui si era separata da poco. Non ricordava nulla, Antonietta, aggredita e ricoverata in ospedale. Lo psicologo, con i familiari, le ha detto che le bimbe sono morte solo l’altro ieri, in occasione dei funerali.
«La cosa che più mi fa rabbia è che questa donna aveva chiesto aiuto. E aveva spiegato la situazione al comandante del marito. Le persone sapevano, eppure...». Elena si ferma. E ricorda. «Anch’io sapevo che mio marito era entrato nel tunnel di una depressione profonda che solo terapie psichiatriche e psicanalitiche avrebbero potuto curare. Decisi che dovevamo chiedere aiuto anche noi, ma lui no, non voleva». Ma Elena non lo lasciò. «Ho rispettato le mie scelte e sono rimasta: fin che morte non ci separi, avevo promesso». È così purtroppo è stato. Antonietta se ne era andata di casa: «Si era rivolta alle autorità eppure non ha funzionato. Aveva già subito minacce e soprusi».
Marco, invece, «non mi aveva mai minacciata. Vede, sapevo che era stanco di vivere. Che aveva bisogno di un sostegno. Ma il problema è che quando se uno decide di agire, prima o poi lo fa. Mio marito aveva fallito come uomo e ha voluto portarsi via tutta la famiglia alla quale non si sentiva in grado di provvedere». E lei lo sa: «Stavo per fare la stessa fine». E invece no. Ma come si sopravvive a un simile (e violento) vuoto? «Prima di tutto appoggiandosi agli specialisti», ribadisce. «Antonietta ha vissuto l’inferno prima, ma ora sarà peggio. E ci saranno tantissime lacrime: chieda aiuto a persone competenti che le stiano vicino mentre riprende il suo cammino». E soprattutto (si commuove): «Non ceda ai sensi di colpa, non se li dia. Perché deve sapere che ha fatto tutto ciò che doveva e poteva». Non da ultimo, il tempo: «Ne serve tantissimo. Perché perdere un figlio non è mai una cosa anche solo contemplabile per un genitore, perderlo in questo modo poi...». Silenzio. Riprende da una consapevolezza, Elena. «Antonietta sappia che quel giorno una parte di lei è morta, per sempre. Avrà una seconda vita, parallela, ma ovunque andrà non sarà mai più la stessa persona di prima. Non so come dire: incompleta, ecco». Ma tornare a respirare è possibile. «Bisogna prenderne consapevolezza, capire prima di tutto che se ci è stato
L’appello Non si consumi nei sensi di colpa: deve sapere che ha fatto tutto ciò che poteva e doveva, anche se non è bastato. Una parte di sé muore per sempre, ma tornare alla vita è possibile: c’è un motivo per cui c’è stato concesso di restare
concesso di restare da questa parte un motivo ci deve essere: è necessario trovarlo. E aggrapparsi alla certezza di essere in grado di sopportare tutto questo, perché gli altri, un supporto pur indispensabile, non meritano di accollarsi il fardello della nostra rabbia e del nostro dolore». A lei, ricorda Elena con tenerezza, «ha aiutato molto il lavoro». Faceva l’infermiera. Fino a quando ha capito che emotivamente i livelli di stress «non erano più sopportabili». E allora ha detto basta.
Ma anche il volontariato ha avuto un peso speciale nel suo ritorno alla luce. Premio Bulloni 2012, Elena Morè ha passato sei mesi (tre mesi per poi ripartire, come si era ripromessa) in Brasile in una casa famiglia con centinaia di bambini grazie a Operazione Lieta («là mi sono sentita libera di essere me stessa al di là dei giudizi e della compassione e quell’amore incondizionato ha fatto sentire speciale e ha ridato un senso alla mia vita») e poi ha scelto di «staccare: con la città e i ricordi quotidiani». Per ricominciare da Cesena. «Giorno dopo giorno».