Il «leone» che scosse la Dc da Leno ai ministeri romani
Da ministro realizzò strade e portò a Brescia i fondi per S. Giulia Alle sue feste Grillo da comico, ai suoi convegni Forlani e Casini
È morto ieri mattina nella sua casa di Lonato Giovanni Prandini, parlamentare per 22 anni, otto con incarichi ministeriali di peso, come quello ai Lavori Pubblici che per lui, negli anni di Tangentopoli, fu anche foriero di guai giudiziari. Era un «leone» della Prima Repubblica Giovanni Prandini di Leno, iperattivo e decisionista.
Èmorto ieri, all’età di 78 anni, Giovanni Prandini. Il politico, esponente di spicco della Prima Repubblica, si è spento nella sua casa di Lonato dopo una battaglia durata quattro anni contro la malattia. La salma è composta nella casa di via Fenil Vecchio 3 a Lonato, i funerali domani alle 14.30 nella chiesa di Lonato prima della sepoltura a Castelletto di Leno.
Con Prandini se ne va una figura-chiave della politica bresciana del secondo Novecento, un «leone» della Prima Repubblica, un democristiano a 24 carati. Nel suo curriculum figurano 22 anni da parlamentare, 12 da componente della Direzione nazionale del partito, 8 con incarichi ministeriali ma anche tre mesi di detenzione a Regina Coeli per TangentAnas, 14 anni di processo prima dell’assoluzione «perché il fatto non sussiste» con una residua e beffarda condanna della Corte dei conti a risarcire lo Stato con 5 milioni per «danno morale».
Giovanni Prandini detto Gianni è stato osannato e contestato, votato e isolato, riverito e vilipeso. Alle sue feste di fine anno da millequattrocento coperti sfilavano, compiacenti, comici come Beppe Grillo e Renato Pozzetto. Ai suo convegni di Sirmione (cinque edizioni dal 1985 al 1991) si affacciavano i leader nazionali dello Scudocrociato da Arnaldo Forlani a Giovanni Goria, da Pierferdinando Casini a Rosa Russo Iervolino. È stato il signore delle tessere (scudocrociate), delle preferenze (46mila), delle opere (realizzate): da ministro dei Lavori pubblici fu lui a sbloccare i cantieri per le strade che oggi portano da Iseo alla Valcamonica, da Brescia alla Valsabbia, dal capoluogo a Desenzano. Ma anche i fondi che consentirono l’apertura del Museo di Santa Giulia giunsero grazie a lui.
Ha interpretato in maniera personalissima il popolarismo democristiano condendolo con una ruvidezza di carattere e un decisionismo pragmatico che lo rendevano un alieno nel molle ventre doroteo del partito. A Brescia ha abbracciato e stritolato un leader potente e carismatico come Mario Pedini, ha scalzato una figura intoccabile come quella di Bruno Boni, ha cresciuto nella sua corrente (Rinnovamento popolare, che aveva sede in piazzetta Labus) una leva di amministratori e parlamentari che andava dalla Valcamonica alla Bassa più profonda.
Ha sfidato la potentissima corrente moro-basista dei Martinazzoli, dei Padula, dei Gitti e dei Sora. Ha fondato un giornale, la Gazzetta di Brescia, ribattezzato in suo onore «La Pranda» alludendo alla «Pravda» sovietica. Ha guidato l’assalto dei sanculotti di provincia alla cittadella della sinistra dc. Ha determinato una diarchia con Martinazzoli (variamente sintetizzata nell’immagine evangelica di Marta e Maria, nel dualismo monastico fra Leno e Santa Giulia) che ha segnato un decennio e passa di storia democristiana, fra l’apogeo della Balena bianca e il suo naufragio giudiziario, elettorale, morale.
Il nome Prandini rimbalza ancora oggi sulla scena pubblica ma per merito del figlio Ettore, oggi presidente della Coldiretti provinciale e regionale e vicepresidente di quella nazionale, e della figlia Giovanna presidente di Pro Brixia. In queste ore sono loro a fare da scudo al dolore della mamma, la signora Adele.
Giovanni Prandini era nato nella cascina Fortuna di Viadana di Calvisano il 22 gennaio 1940, terz’ultimo degli otto figli di Primo, agricoltore, e di Giacomina Ferrari: fra loro un sacerdote (don Mario, che morirà da parroco di Lumezzane San Sebastiano) e una suora (Maria Carmela, canossiana). La famiglia si sposta ben presto a Catelletto di Leno e Gianni Prandini sarà, per sempre, l’uomo di Leno. Tanto che verrà chiamata «Lenese» una delle sue opere stradali, la lunga provinciale che da Lonato taglia in diagonale la Bassa fino a Orzinuovi.
Maturità al Bagatta, laurea (nel 1966) in Sociologia politica alla Cattolica con una tesi di laurea sul sindacato americano, relatore Francesco Alberoni: da esponente di governo riceverà anche una laurea honoris causa in Filosofia a Taipei.
Prandini lavora come assicuratore, titolare di fiorentissime agenzie, ma il richiamo della politica, sollecitato dall’allora sindaco di Leno Angelo Regosa, è veemente.
Il suo debutto sulla scena bresciana è nel 1964, al conno gresso del Movimento giovanile Dc dove viene eletto delegato provinciale. Inizia lì una parabola ascendente che in un trentennio lo porterà a essere uno degli uomini più potenti della Dc nazionale, braccio destro del segretario Arnaldo Forlani, ministro titolare di dicasteri ambiti e delicati. In provincia la sua ascesa è continua: metodico nella raccolta delle tessere e abile nelle alleanze interne, è segretario provinciale nel 1971, deputato dal 1972 (confermato nel 1976, 1979, senatore nel 1983, 1987, di nuovo deputato nel 1992), presidente provinciale del partito dal 1982.
Al governo è sottosegretario al Commercio estero nel primo governo Craxi, ministro della Marina mercantile nel governo Goria e nel gover- De Mita dal 1987 al 1989 (quando ingaggia un’epica sfida a viso aperto con i «camalli», i potenti scaricatori di porto di Genova e Livorno), ministro dei Lavori pubblici dal 1989 al 1991 in due governi Andreotti.
A bufera giudiziaria finita rivelerà in un’intervista di aver cercato di evitare la delega ai Lavori pubblici: «Era noto a tutti che quel ministero era una delle più importanti fonti di finanziamento dei partiti e dei sindacati in Italia. Da ministro io diventavo di fatto un punto di riferimento per il finanziamento della politica». Prandini uscirà dal gorgo giudiziario nel 2007: un uomo politicamente finito, comunque. La breve esperienza nell’Udc sarà per lui una delusione: dopo, si limiterà a rilevare una dei marchi post-Dc per tenere viva una testimonianza.
Nell’ultima intervista al Corriere della Sera nell’ottobre 2016, quando la lotta con il tumore era ingaggiata da tempo, aveva assunto toni crepuscolari, persino intimi. S’era dichiarato nostalgico della I Repubblica e della Dc, aveva ammesso di non riconoscere più la sua Bassa, sfigurata da capannoni e circonvallazioni. Aveva denunciato l’indifferenza della politica di fronte alle sofferenze dei ceti popolari. Aveva liquidato Renzi come «bullo fiorentino», dispensato giudizi taglienti sui protagonisti della scena pubblica nazionale e locale. Aveva ammesso che, della politica, gli mancava soprattutto il rapporto con la gente.
Quando era all’apice del potere la gente faceva la coda per incontrarlo. Caduto in disgrazia, attorno a lui si fece il vuoto.
Gianni Prandini ha incarnato il fulgore e la rovina del potere. In questo senso è stato una figura drammatica, a tratti tragica. Comunque schietta, battagliera, aperta. Sempre umanissima.