Classico e moderno: l’ossimoro seducente di Orfeo ed Euridice
Il mito di Orfeo, centrale per la storia della musica, rivive in questi giorni sul palco del Teatro alla Scala grazie a un bell’allestimento di «Orphée et Euridice» di Gluck. Si tratta peraltro di una prima anche per il teatro milanese: quella scelta è infatti la versione parigina del capolavoro, rivista, riorchestrata e ampliata al teatro del Palais-Royal nel 1774 con nuovi versi francesi di Pierre-Louis Moline. La nuova versione, oltre a inserire nuovi balletti, assegnava la parte di Orphée a un tenore, marcando una distanza ulteriore dalle convenzioni barocche. Lo spettacolo, una produzione nata a Londra con la regia di Hofesh Shechter e John Fulljames, riesce nel difficile intento di mantenere fedeltà allo spirito dell’opera pur presentandosi innovativo: l’orchestra è insolitamente posizionata su una piattaforma mobile che sale e scende a seconda delle scene, e l’intervento della compagnia di danza Hofesh Shechter conferisce un notevole valore aggiunto, nel contrasto tra la levigata politezza del neoclassicismo gluckiano e l’incedere a tratti nervoso dei danzatori. L’idea di fondo è che quello raccontato dal mito non sia altro che un sogno del povero Orfeo, disperato per la morte dell’amata Euridice, e comunque incapace di riaverla, a dispetto del lieto fine in partitura. Tutto ruota intorno al protagonista, il tenorissimo Juan Diego Florez, come sempre impeccabile per eleganza, purezza di emissione e morbidezza nel fraseggio. Ottime anche le due interpreti femminili, i soprani Christiane Karg e Fatma Said, nonché il coro istruito da Bruno Casoni; superlativa la direzione di Michele Mariotti, capace di valorizzare la scrittura orchestrale, con una cura particolare per gli impasti timbrici e una flessibilità ritmica capace di evidenziare la cangiante ispirazione del compositore. Brilla il flauto solista del bresciano Marco Zoni.