L’archistar dell’era di Mussolini
La biografia completa dell’architetto del regime, Marcello Piacentini, pubblicata da Paolo Nicoloso
L’architetto del regime, certo. Lo «Speer di Mussolini», d’accordo. Ma anche l’archistar dell’Italietta giolittiana legato a filo doppio alla massoneria a cui le camicie nere della prima ora somministrarono un’abbondante razione di olio di ricino. E poi il senatore dell’architettura italiana entrato nelle grazie di Andreotti. L’urbanista che perorava la difesa dei centri storici e firmava piani regolatori che li sventravano. Il teorico di uno stile architettonico nazionale che civettò con il razionalismo, finendo però attaccato dai suoi pasdaran. Il professionista per il quale vennero fatte leggi ad hoc, inventate procedure, falsate gare. Ma che, affacciatosi fuori dai confini patrii, subì qualche sonora bocciatura e più d’una amara delusione. Questo e molto altro è stato Marcello Piacentini (18811960) il «padre» di piazza della Vittoria la cui biografia viene ora pubblicata da Paolo Nicoloso, che insegna Storia dell’architettura all’Università di Trieste, sulla base di una documentazione vastissima e di una ricostruzione cronologica di chiarezza adamantina («Marcello Piacentini. Architettura e potere: una biografia». Gaspari Editore, pagine 360, euro 24,50). Figlio di un altro grande progettista, Pio Piacentini, nipote per via materna di Guglielmo Stefani, fondatore dell’omonima agenzia giornalistica, pupillo di due Gran Maestri della massoneria di Piazza del Gesù, Ernesto Nathan ed Ettore Ferrari, amico del giornalista Ugo Ojetti, protettore di un nugolo di artisti (a Wildt a Dazzi, da Martini a Carrà, da Sironi a Funi, da Fontana a Manzù) Piacentini fu anche Accademico d’Italia insieme al collega-rivale Armando Brasini e all’avversario Filippo Tommaso Marinetti. L’architetto e urbanista è sulla breccia già nel 1911, quando il giovane Regno d’Italia festeggiava i suoi primi cinquant’anni (contribuì a completare l’opera di Giuseppe Sacconi, il progettista dell’Altare della Patria morto nel 1905, e firmò alcuni dei più importanti padiglioni della Mostra delle Regioni italiane); è ancora riverito e rispettato nel 1957 quando il presidente Giovanni Gronchi gli conferisce il titolo di professore universitario emerito per la «salda e originale» dottrina urbanistica che ha lasciato «tracce profonde nel progresso dell’architettura».
In mezzo, c’era stato il lungo flirt con il fascismo e l’episodio bresciano di piazza della Vittoria: come noto Piacentini inizialmente fa parte della commissione giudicatrice del nuovo Piano regolatore. Il progetto premiato, del gruppo guidato da Pietro Aschieri, rimane però lettera morta. Di lì a poco il ras del fascismo bresciano Augusto Turati, «con una procedura non del tutto ortodossa», chiama l’ex arbitro, Piacentini, a redigere il nuovo Piano. La motivazione? Piacentini è una «indiscussa autorità nel campo architettonico» e inoltre «gode della fiducia del governo nazionale». In effetti sono gli anni in cui gli avversari lo accusano di essere un vero e proprio «dittatore edile» sul modello romano, mentre lui si destreggia fra l’Arco della vittoria di Bolzano e la nuova Città universitaria di Roma. Vero è che il Piano regolatore bresciano viene approvato con inusitata celerità. L’inaugurazione di piazza della Vittoria, l’1 novembre 1932 alla presenza del duce in persona, sorprende il progettista impegnato nella sistemazione dei dettagli di una delle sue imprese più riuscite: edificare 14 palazzi in soli due anni e mezzo.
Dopo la fine del fascismo Piacentini sfugge all’epurazione ma non ad alcune stroncature come quella, agra ed icastica, di Bruno Zevi («Piacentini morì nel 1925») o quella spietata di Cesare De Seta che lo definiva «il pontefice massimo» della Scuola romana, considerata però «una scuola a delinquere» dove si erano saldati i poteri economico, politico e accademico. Lo stroncatore più insistito fu tuttavia l’archeologo Antonio Cederna che considerava Piacentini «maestro del trasformismo» e «genio del doppio gioco», un architetto «che non ha mai creduto a niente», con «il cuore di sventratore» e «il gusto profondo per la profanazione della bellezza delle città». La nuova biografia piacentiniana dà conto delle bocciature ma anche degli elogi che alleati, corifei, lacché e spiriti indipendenti hanno dato di questo gigante dell’architettura. Nicoloso sceglie per sè una via intermedia, riflessiva e storico-critica: la sua biografia «non è scritta per demonizzare la figura di Piacentini né, all’opposto, per rivalutarla».
La indaga però in profondità. Il risultato è «un racconto biografico per restituire la complessità delle numerose relazioni intrecciate dall’architetto; per legare tra loro vicende apparentemente separate, svoltesi in città diverse, ma in realtà connesse tra loro; per sottolineare quello straordinario ruolo di regia avuto dall’architetto in un momento in cui l’architettura era ritenuta uno strumento essenziale per costruire l’identità degli italiani».
Gli interventi Una ricostruzione cronologica della vita del papà di piazza Vittoria
Il piano regolatore Fu chiamato da Augusto Turati a redigere il nuovo piano regolatore per Brescia