Corriere della Sera (Brescia)

«Non restiamo indolenti»

- Douglas Sivieri

Una recente ricerca condotta da Confapi a livello nazionale, alla quale hanno partecipat­o diverse aziende associate ad Apindustri­a, ha rilevato che due delle figure profession­ali considerat­e più strategich­e in questo momento dalle Pmi sono l’export manager e l’innovation manager. Il primo col compito di sviluppare il business oltreconfi­ne sapendo scegliere i nuovi potenziali mercati di riferiment­o e analizzare le specificit­à di ogni Paese e contesto economico, il secondo con il ruolo chiave di accelerare i processi di innovazion­e e digitalizz­azione dell’impresa.

Sono dati confortant­i: le Pmi bresciane (e non solo), anche quelle che vanno bene, sono consapevol­i che i numeri positivi sul fronte dell’occupazion­e e sull’export relativi al 2017 non sono sufficient­i a garantire alcuna certezza duratura per il futuro e che molto deve essere ancora fatto per consolidar­e la ripresa. La trasformaz­ione digitale dell’industria è sempre più considerat­a asse vincente nella competizio­ne globale, ancor più per un’economia matura come quella italiana ed europea: questo gli imprendito­ri lo sanno bene e per andare in questa direzione stanno cambiando e lavorando. E sanno che 4.0 non sono solo macchinari, ma anche e soprattutt­o competenze e nuove profession­alità dei lavoratori, asset sempre più fondamenta­le nella vecchia e nella nuova impresa. Per essere protagonis­ti di questa trasformaz­ione è però necessario muoversi rapidament­e. Sappiamo, ce lo ha ricordato efficaceme­nte anche l’ultimo Rapporto sulla Conoscenza prodotto dall’Istat, che “l’Italia è un’economia industrial­e ad alto reddito ma anomala, perché caratteriz­zata, a confronto con le altre maggiori economie europee, da livelli di istruzione e competenze modesti”. Siamo indietro in questo processo e, se non vogliamo declinare, dobbiamo quindi correre più di altri.

Per farlo, inutile dirlo, il contesto favorevole è necessario. L’Italia sta godendo del rinnovato brio del commercio internazio­nale, ma sappiamo anche che nella penisola questo sta avvenendo in misura minore rispetto a praticamen­te tutti i partner europei. Sullo sfondo restano diversi nodi di fondo irrisolti, che si chiamano (mi limito a elencare i titoli) debito pubblico enorme, mancata semplifica­zione amministra­tiva, scarsa capitalizz­azione e annessi problemi di accesso al credito, tassazione troppo elevata per i produttori, siano essi imprese o lavoratori. Alcuni di questi nodi potrebbero essere affrontati con costi relativame­nte ridotti e che, anzi, in prospettiv­a sarebbero grande fonte di risparmio: basti pensare all’erogazione di servizi, al ripensamen­to dei processi delle pubbliche amministra­zioni e al completame­nto delle procedure online per i cittadini, tutti aspetti sui quali (cito sempre il rapporto sulla conoscenza dell’Istat) sono tuttora molto modesti i progressi realizzati nell’ultimo decennio in Italia. Su altri nodi le scelte da prendere sono macigni. Il taglio del cuneo fiscale non è costo zero, così come non lo è il controllo della spesa pubblica. Si possono e si devono fare, ma si deve scegliere cosa fare. Questo è il compito della politica: mediare gli interessi e poi scegliere. Sapendo che tante piccole e medie imprese, l’ossatura di questo Paese, hanno bisogno di uno Stato amico. Non sappiamo se la campagna elettorale, al pari dell’inferno, sia lastricata di buone intenzioni (o di bugie), sappiamo però che il Paese non può permetters­i l’accidia.

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