«Non restiamo indolenti»
Una recente ricerca condotta da Confapi a livello nazionale, alla quale hanno partecipato diverse aziende associate ad Apindustria, ha rilevato che due delle figure professionali considerate più strategiche in questo momento dalle Pmi sono l’export manager e l’innovation manager. Il primo col compito di sviluppare il business oltreconfine sapendo scegliere i nuovi potenziali mercati di riferimento e analizzare le specificità di ogni Paese e contesto economico, il secondo con il ruolo chiave di accelerare i processi di innovazione e digitalizzazione dell’impresa.
Sono dati confortanti: le Pmi bresciane (e non solo), anche quelle che vanno bene, sono consapevoli che i numeri positivi sul fronte dell’occupazione e sull’export relativi al 2017 non sono sufficienti a garantire alcuna certezza duratura per il futuro e che molto deve essere ancora fatto per consolidare la ripresa. La trasformazione digitale dell’industria è sempre più considerata asse vincente nella competizione globale, ancor più per un’economia matura come quella italiana ed europea: questo gli imprenditori lo sanno bene e per andare in questa direzione stanno cambiando e lavorando. E sanno che 4.0 non sono solo macchinari, ma anche e soprattutto competenze e nuove professionalità dei lavoratori, asset sempre più fondamentale nella vecchia e nella nuova impresa. Per essere protagonisti di questa trasformazione è però necessario muoversi rapidamente. Sappiamo, ce lo ha ricordato efficacemente anche l’ultimo Rapporto sulla Conoscenza prodotto dall’Istat, che “l’Italia è un’economia industriale ad alto reddito ma anomala, perché caratterizzata, a confronto con le altre maggiori economie europee, da livelli di istruzione e competenze modesti”. Siamo indietro in questo processo e, se non vogliamo declinare, dobbiamo quindi correre più di altri.
Per farlo, inutile dirlo, il contesto favorevole è necessario. L’Italia sta godendo del rinnovato brio del commercio internazionale, ma sappiamo anche che nella penisola questo sta avvenendo in misura minore rispetto a praticamente tutti i partner europei. Sullo sfondo restano diversi nodi di fondo irrisolti, che si chiamano (mi limito a elencare i titoli) debito pubblico enorme, mancata semplificazione amministrativa, scarsa capitalizzazione e annessi problemi di accesso al credito, tassazione troppo elevata per i produttori, siano essi imprese o lavoratori. Alcuni di questi nodi potrebbero essere affrontati con costi relativamente ridotti e che, anzi, in prospettiva sarebbero grande fonte di risparmio: basti pensare all’erogazione di servizi, al ripensamento dei processi delle pubbliche amministrazioni e al completamento delle procedure online per i cittadini, tutti aspetti sui quali (cito sempre il rapporto sulla conoscenza dell’Istat) sono tuttora molto modesti i progressi realizzati nell’ultimo decennio in Italia. Su altri nodi le scelte da prendere sono macigni. Il taglio del cuneo fiscale non è costo zero, così come non lo è il controllo della spesa pubblica. Si possono e si devono fare, ma si deve scegliere cosa fare. Questo è il compito della politica: mediare gli interessi e poi scegliere. Sapendo che tante piccole e medie imprese, l’ossatura di questo Paese, hanno bisogno di uno Stato amico. Non sappiamo se la campagna elettorale, al pari dell’inferno, sia lastricata di buone intenzioni (o di bugie), sappiamo però che il Paese non può permettersi l’accidia.