Nadia Busato e il mistero dell’angelo caduto
Busato racconta il suicidio di una donna finito in prima pagina su Life
Un volo perpendicolare, un impatto senza scampo, la scatola nera non è mai stata trovata. È il primo maggio del 1947, giorno di festa e di sfilate, quando Evelyn McHale, una giovane di 23 anni, impiegata, sale tutti gli 86 piani dell’Empire State Building a New York, praticamente fin sotto l’ultima terrazza prima della guglia di King Kong, e si butta nel vuoto, schiantandosi 381 metri più in basso sul tetto di una limousine di un diplomatico delle Nazioni Unite.
Nei pressi transita per caso Robert Wiles, uno studente di fotografia, che immortala il cadavere, stranamente composto in quella postura da angelo caduto, che il giorno dopo finisce sulla copertina della rivista Life. Un’immagine iconica ad alta condensazione simbolica, un mito della criticità modernità. La morte l’ha fatta ancora più bella, parafrasando il titolo di un film noir di Robert Zemeckis.
Cosa ha spinto una donna con il futuro disteso davanti e in procinto di sposarsi, a salire su quel grattacielo e a porre fine alla sua vita, resta però un mistero. Dopo anni di ricerche, perché le vere ossessioni non demordono e scavano dentro, Nadia Busato ha scritto un libro (Non sarò mai la brava moglie di nessuno, Sem, pp. 255, euro 16), partendo proprio da quella fotografia, che ha suggestionato Andy Warhol e cantautori, e dalla lettera di addio, che ha la perentorietà intimidatoria di un testamento e la lucida ferocia di un’autoestinzione dal mondo. Evelyn rimane un enigma irrisolto, ma l’intento è quello di avvicinarsi alla verità, di trovare il fatal flow, il punto di rottura di un personaggio sicuramente fragile ma che ha anche una determinazione d’acciaio e che per certi versi incarna la disobbedienza civile predicata da Thoreau.
Evelyn, meglio non dimenticarlo, è una conterranea dello scrivano Bartleby di Melville, l’uomo che preferisce dire di no, che nega l’accesso alle proprie ragioni e sfida la rigida società benpensante, sabotando le convenzioni. Evelyn non è fatta di una pasta diversa in fondo. Irriducibile e non riconciliabile, si sottrae all’eutanasia della normalità, che spesso è una forma di resa quiescente e complice, imposta da una società che dispensa, spesso ipocritamente, ruoli e missioni. La scandalosità del suo rifiuto, del suo ricusare il destino, sta nella sua refrattarietà ai decantati paradisi muliebri e materni, nello smarcarsi rispetto agli algoritmi delle esperienze comuni.
Nadia Busato entra nell’esistenza di questa donna tormentata usando il pennello dell’archeologo sui pochi reperti rimasti, raccontando con stile rotondo l’indotto, ricostruendo con meticolosità d’archivio il contesto storico di un società in cui la donna è prigioniera di un sistema che ricorda i melò cinematografici di Douglas Sirk e Todd Haynes, ricorrendo a episodi rivelatori e alle presunte testimonianze delle persone informate dei fatti ma anche alle figure di contorno. Un coro da tragedia, un Rashomon di memorie incrociate.
Interviene la madre, con la quale Evelyn riconosce di avere «fin troppe cose in comune», una moglie afflitta dalla depressione che in salotto è protagonista di un affilato dialogo-carnage con il marito.
Seguono tra gli altri, la sorella, il fidanzato Barry, un commilitone del Women’s Army Corp, nel quale Evelyn aveva prestato servizio, il fotografo del celebre scatto e le redattrici di Life che si interrogano su dovere di cronaca ed etica. Si sente anche la voce di Evelyn, martire che con coraggio va incontro alla sua maledizione, suscitando pietà, clemenza di giudizio e tenerezza. Uno spaccato d’epoca e un caso di suicidio agonistico, che continua a parlarci del rapporto tra sacrificio, identità e libertà.
Mistero irrisolto Evelyn resta un enigma irrisolto, ma l’intento è quello di avvicinarsi alla verità della storia