Omicidio Mura, la sentenza Musini «l’unico colpevole»
«Inconsistenti», per la Corte d’appello, le ipotesi alternative
Oltre ogni ragionevole dubbio. Almeno secondo i giudici della Corte d’assise d’appello. Gli orari, la ricostruzione dell’aggressione, le tracce, la fuga, le sue dichiarazioni: «Tutti gli elementi indiziari convergono, in maniera univoca e rassicurante, nel provare la responsabilità dell’imputato — Alessandro Musini — in ordine al reato di omicidio commesso nei confronti della moglie Anna Mura», trovata con il cranio fracassato nella casa in cui viveva con il marito e due figli, a Castenedolo, la mattina del 16 marzo 2015. Non solo. Per i giudici — che motivano la conferma dell’ergastolo inflitto in primo grado in 227 pagine — «la falsità delle dichiarazioni dell’imputato costituiscono una pietra tombale sulla sostenibilità della tesi che altri possano essere stati». A uccidere. E cioè il figlio minore della coppia, Danilo, che all’epoca aveva 15 anni appena: fu lui a trovare la madre in una pozza di sangue, all’ora di pranzo, poco dopo essersi alzato. «Non ho sentito nulla» ha sempre detto. Se non «due o tre colpi al muro... bum bum», verosimilmente ricondotti dalla corte al momento in cui Anna Mura sarebbe caduta dal letto nella seconda fase dell’aggressione: 39 i colpi inferti, «verosimilmente con due strumenti, uno da punta e da taglio, l’altro verosimilmente costituito da un corpo contundente compatibile con il batticarne non rinvenuto in casa». E nemmeno altrove.
Ci ha provato in ogni modo, la difesa (rappresentata dagli avvocati Ennio Buffoli e Andrea Pezzangora, i quali hanno chiesto una parziale rinnovazione dibattimentale) a insinuare il dubbio che a colpire, quella mattina, non fosse stato Musini. Mosso a uccidere, per l’accusa e i giudici, dalla paventata volontà della moglie di separarsi e mettere fine al loro matrimonio (non sarebbe stata la prima volta). Ma il giovanissimo figlio, le cui tracce genetiche («parziali e di quantità scarsissima» per la corte, che non esclude la contaminazione e il «trasferimento» in momento temporale «non accertabile» in un contesto familiare. E che da solo «non è un indizio dirompente») furono trovate sugli slip della madre calzati in parte e post mortem. Ma l’ipotesi alternativa, per la corte, «appare inconsistente, inverosimile, indimostrata e per alcuni versi assolutamente fantasiosa». Prima di dimostrazione e «implausibile»: un ragazzino immaturo, «che pensa solo a come farsi il ciuffo o mettersi i piercing, che ha una sessualità ancora indecisa, non ama la scuola e alla prima occasione evita di frequentarla, che adora la mamma, con la quale scambia coccole e confidenze, che ha paura di tornare a casa da solo e ha paura di avvicinarsi al corpo insanguinato della madre. Che si sveglia e si mette a guardare i cartoni animati: questo ragazzino, si ripete, avrebbe avuto la lucidità e il sangue freddo di ucciderla in modo selvaggio, senza un apparente motivo, modificare la scena del crimine cancellando le tracce e facendo sparire gli indumenti, di tornare a dormire» salvo poi «simulare la tragedia» correndo a chiedere aiuto ai vicini. Solo «un grande attore» scrive la corte, di certo «più maturo» avrebbe potuto farlo, «e mantenere la propria coerenza nelle dichiarazioni rese di volta in volta». E poi non c’è movente, per i giudici. Perché «il testimoniale racconta di un profondo legame tra il figlio e la madre», punto. Nessun conflitto. «Inutile e superfluo» quindi, ogni ulteriore approfondimento tecnico o esplorativo: «Non è necessario». Pesa la fuga, quella di Alessandro Musini, la mattina dell’omicidio: lo troveranno il giorno successivo, in un parco pubblico in città. E non convince la corte che si sia trattato di uno choc da stress legato al ritrovamento di una sorella morta suicida, anni prima. Pesano «i graffi non giustificabili» che ha sul collo. E le piccole macchie di sangue della moglie «da proiezione» sui suoi jeans: troppo poche, ha sempre sostenuto la difesa, viste le modalità di aggressione e di morte della moglie Anna Mura. A armare la mano del marito, per la corte, è stato un «dolo non istantaneo», maturato dopo l’ennesima lite di due sere prima.