Burson e il ritratto nell’epoca della riproducibilità tecnica
Un letto sfatto, una bionda tra le lenzuola di seta, un disco di Frank Sinatra acceso, Douglas Kirkland che si rotola sulla moquette e scatta. «Ci feci l’amore a modo mio, con la macchina fotografica». Era il 1961 e fu una delle ultime foto di Marylin Monroe: morirà l’anno dopo sempre in un letto, quello di casa sua, con la mano aggrappata alla cornetta del telefono. Nancy Burson ha immaginato cosa sarebbe stata: oltre a Bette Davis, guaritori, ermafroditi, chimere e Gesù, nel suo album manipolato c’è un primo piano dell’ultima diva, un bianco e nero e un viso invecchiato.
La fotografa, ossessionata dalla genetica e dall’arte transgenica, espone da Paci contemporary (in via Trieste) i suoi Composites: ritratti invecchiati generati al computer tra gli anni Settanta e Ottanta. Uomini, donne, icone, ma anche capolavori di Picasso, De Kooning, Rothko, Cézanne, Van Gogh, Newman manipolati dalla tecnica.
Dall’inizio della sua carriera, Burson ha indagato, esplorato e sperimentato le possibili interazioni tra arte e scienza: è stata tra i primi artisti in assoluto a servirsi del digitale per la ritrattistica fotografica. Attraverso la sintesi di immagini e primi piani resa possibile dal suo personalissimo metodo di lavoro, fatto di morphing e software sofisticati, crea opere nuove che mettono in crisi e fanno vacillare l’indole cronachistica e «vera» della fotografia con la manipolazione tecnologica. Età, razza, incarnati vengono stravolti, proiettati nel passato o nel futuro, invecchiati o ringiovaniti: un viaggio nel tempo su pellicola.