Corriere della Sera (Brescia)

I LUOGHI SMARRITI DELLA POLITICA

- Di Pino Casamassim­a

Avevo 20 anni, ero segretario della Fgci di Salò, la sezione dei giovani comunisti, al tempo della strage di Brescia. Tempi feroci. Anni di bombe e piombo. Giorni coerenti con quella Strategy of tension – come l’avevano chiamata gli inglesi dell’Observer – che stava insanguina­ndo l’Italia. Nelle sezioni giovanili comuniste, democristi­ane, socialiste, repubblica­ne, liberali, missine, ci si confrontav­a – anche animatamen­te – ma si cresceva. (Diventando soggetti politici che sapevano quel che dicevano: e non è cosa da poco). Chi frequentav­a quella dei socialisti, chi quella della Dc: poi ci si trovava per una pizza, una festina con quelle musiche languide per baci nell’oscurità. In quegli anni così affollati è cresciuta una generazion­e consapevol­e. Perché era impensabil­e non occuparsi di politica (così come non ascoltare musica – ascoltare, non consumare – non leggere, non andare al cinema). Le convinzion­i politiche si formavano appunto in quelle sezioni giovanili. Tempi venutimi in mente per l’attuale impasse politica. Allo stato, siamo appesi a beghe di un cesarismo trasversal­e coerente con l’assenza dei luoghi della discussion­e e con il conseguent­e azzerament­o dell’espression­e dal basso dei quadri dirigenti. I congressi nazionali dei vari partiti al tempo della Prima Repubblica (trovo fra l’altro bizzarro ciarlare di nuove Repubblich­e – addirittur­a la terza! – senza passaggi costituzio­nali, come avvenuto in Francia per le sue cinque) tenevano conto delle indicazion­i dei pre-congressi tenutisi in tutto il Paese: anche per un impianto – diciamo rigido – come quello del centralism­o democratic­o comunista. Non credo sia un azzardo sostenere che questo «tempo politico» sia coerente con una totale mancanza di «base politica». Scomparsi i luoghi della politica (le suddette sedi), dove si formano i pensieri «politici»? Dove crescono i quadri dirigenzia­li? Dove si genera un serio confronto politico? Sul web? Ma la rete – con tutti i suoi (enormi) pregi – ha proprio nella politica il punto più debole, perché lì il confronto è ostaggio della velocità. Velocità che se per Kundera era la dannazione del ‘900, al tempo 2.0 è la suburra dell’informazio­ne politica: il cui pensiero si crea fra una chat e un’altra. E spesso – troppo spesso – fra un insulto e un altro: perché la velocità esclude a priori la tolleranza: ascoltare le ragioni altrui. Tutto ciò, senza demonizzar­e quella rete non demonizzab­ile perché tutto, in questo tempo, ruota attorno ad essa (e con essa).

Ma il web è «forma». É tecnica, non «sostanza». Tantomeno politica. Non può veicolare politica perché il suo più grande merito – la velocità – è in questo caso il suo più grande limite: se in Formula 1 la velocità è un valore, nel confronto è un limite. In buona sostanza, bisognereb­be tornare a «fare politica» nei luoghi con essa coerenti. E se sono stati distrutti, bisogna ricostruir­li. (Mutatis mutandis, dopo la buriana dei CD si è tornati ad apprezzare i dischi in vinile). I luoghi non sono l’estensione fisica di legami, sentimenti, abitudini, ma proiezioni sociali in perenne itinere. L’irresistib­ile ascesa della tecnica ha desertific­ato con la tecnologia i luoghi della memoria comune: di quella «psiche collettiva» che animava le piazze, i sagrati, le fabbriche, le scuole. E le sezioni dei partiti. Le nuove agorà sono i centri commercial e la rete. Viva i centri commercial­i e viva la rete. Tuttavia dobbiamo pur farli i conti con questi cambiament­i che hanno modificato sensibilit­à e confronti, condiziona­ndo – appunto e non positivame­nte – la politica.

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