Addio a Olmi: i set del cuore sul Garda e in città
L’umanesimo non è una poltrona: così ha scritto Cesare Pavese. In altre parole, il potere della cultura non basta, se non è corredato dalle buone pratiche della quotidianità. Un concetto che si adegua perfettamente al cinema di Ermanno Olmi che da sempre si è ispirato a quell’umanesimo cristiano sostanziato non di dogmi e apparati, ma di valori solidali e pacifisti, schierato dalla parte degli ultimi per difendere il diritto alla dignità di ciascun uomo. Olmi è uscito ieri di scena, lasciando il suo pubblico ancora più solo. Era l’ultimo dei grandi vecchi, eppure eternamente giovane, sempre coraggiosamente fuori squadra e fuori mercato con i suoi film che parlavano di interiorità, dubbi, perdite ma anche di fede, di spiritualità, di resistenza e inclusione, con la forza dei suoi silenzi e dei suoi volti, staccandosi dal rumore di fondo del mondo. Olmi era bergamasco di nascita, ma tutte le volte che veniva nella nostra provincia, per presentare un film o ricevere un riconoscimento (Premio Gandovere), sottolineava non senza una punta di orgoglio che suo padre era nato a Rovato. Una quota bresciana non mancava dunque nel suo sangue. E non è un caso che le locations bresciane compaiano in alcuni suoi film. A cominciare da Il tempo si è fermato (1959), suo primo lungometraggio dopo i documentari aziendali per la Edison sulla costruzione delle grandi dighe e delle centrali idroelettriche alpine. Il film fu girato dentro e attorno a una baracca nei pressi del lago Venerocolo, Val Camonica, vicino all’Adamello. È la storia del confronto tra due generazioni, un vecchio guardiano e un giovane studente, che imparano a dialogare sullo sfondo di panorami maestosi che impongono disciplina e solitudine. Una autentica lezione olmiana di cinema e vita. Il piazzale antistante la stazione ferroviaria di Brescia, eletto a luogo di incontro di amanti, compare fuggevolmente in Un certo giorno (1967) e lo scenario del Basso Garda, in una giornata uggiosa, compare nel medesimo film che racconta la crisi morale di un uomo caduto nella polvere. Olmi è l’unico regista che ha saputo usare il nostro lago come paesaggio dell’anima e non come cartolina. Da non dimenticare il suo film più noto, L’albero degli zoccoli (1978), epopea della civiltà contadina in cui le riprese in esterni sconfinano nell’area bresciana con scene girate a Pontoglio e al mulino Muse di Dello. Più di una volta Olmi disse di essere un estimatore del nostro Franco Piavoli. I due collaborarono insieme per Terra madre (2009), un documentario ambientalista sull’agonia del nostro pianeta, a meno che non venga salvato dai contadini. Tra le comparse c’era anche Pier Paolo Poggio, direttore del Musil. Proprio Poggio ricorda che il regista fu spesso gradito ospite del Museo di Cedegolo, di cui era un ammiratore.
Affinità elettive Olmi stimava Piavoli e collaborò con lui per «Terra madre» sul tema ambientale