Gli ultimi giorni di Sana in città
Dopo le anticipazioni dell’autopsia, la Procura di Brescia sente amici e conoscenti
Sarebbe stata strangolata. Stando ai primi referti dell’autopsia arrivati dal laboratorio forense del Punjab, Sana Cheema aveva l’osso del collo rotto. Vittima di un presunto delitto d’onore, padre, fratello e zio l’avrebbero uccisa perché si sarebbe rifiutata di sposare chi volevano loro. La Procura sta cercando di ricostruire i suoi ultimi momenti di vita qui (ed eventuali paure), sentendo tutti i testimoni utili.
I connazionali in città Vogliamo verità e giustizia su questa vicenda Nessuna giustificazione per quanto è accaduto alla ragazza
Cosa ha fatto, chi ha visto e con chi ha parlato. Quali i suoi stati d’animo e le eventuali paure. L’obiettivo è ricostruire l’ultimo periodo in vita di Sana Cheema. Al terzo piano del Palagiustizia, il fascicolo sulla sua morte è ancora aperto senza alcuna notizia di reato, questione di ore: fino a che, dalla Farnesina, non arriverà comunicazione ufficiale che la 25enne italo-pakistana sia stata uccisa.
Da Islamabad, però, ecco arrivare un estratto delle conclusioni dell’autopsia condotta dal laboratorio forense di Lahore, l’unico in Punjab: Sana sarebbe stata strangolata. Vittima di un delitto d’onore. I risultati dicono che «l’osso del collo è stato rotto». E per il suo omicidio in prigione ci sono il padre, Ghulam Mustafa, il fratello Adnan e lo zio Mazhar Iqbal. Avrebbero messo a segno il terribile piano con la complicità di un cugino di Sana, a cui si contesta di aver fatto da autista da casa al luogo della sepoltura.
Sana è morta il 18 aprile scorso. Il giorno dopo avrebbe dovuto imbarcarsi per tornare in Italia e a Brescia, dove nel quartiere Fiumicello viveva da anni. E dove, dopo aver collaborato con un’autoscuola, aveva aperto la sua piccola agenzia di pratiche automobilistiche. Aiutava i ragazzi dando lezioni per conseguire la patente. L’ultimo messaggio al padre di un allievo, barista di un locale in cui Sana pranzava quasi ogni giorno, il 18 gennaio: «Scusami ma devo partire per il Pakistan. Se tutto va bene ci rivediamo tra un paio di mesi». Poi più nulla. «Vado a sposarmi» disse invece ad alcuni amici. Ma a quegli uomini che il padre aveva scelto per lei avrebbe detto semplicemente «no», rifiutando quel matrimonio combinato tipico della tradizione. Primo pretendente tra tutti, pare, un parente, che lavora con il bestiame: considerato il «compagno adatto» non solo per il grado di parentela, ma perché la cittadinanza italiana di Sana lo avrebbe aiutato ad ottenerla. «Dad said no problem (papà ha detto che non c’è problema)» scrisse lei a un amico. Si sbagliava.
E adesso la magistratura bresciana sta cercando di fare luce sui suoi ultimi momenti vissuti qui. Convocando ogni testimone possa rivelarsi utile, comprese le amiche che per prime, saputo della sua morte, hanno insistentemente denunciato non si trattasse di un malore come la famiglia ha cercato di far credere. Ma che Sana fosse stata uccisa a Mangowal Gharbi «cittadina ancestrale catapultata nei titoli internazionali venti chilometri più in là da Gujrat (nel Punjab): alla fine di una strada circondata dalla nebbia e dalle case in cemento» come la descrivono i reporter locali. E dove ovunque fa capolino il volto di Orya Maqbool Jan, parlamentare conservatore famoso (si legge nelle cronache) «per i suoi discorsi contro l’erosione della “cultura orientale” e le ansie sulla posizione delle donne, nella sfera pubblica e privata».
A casa l’avrebbero fatta rientrare proprio per trovarle uno sposo. Ma Sana una persona vicina ce l’aveva qui, a Brescia: un ragazzo pakistano come lei, e come lei cittadino italiano, che sarà presto sentito in procura. Tutti gli elementi messi agli atti saranno trasmessi alla collega in Pakistan, il magistrato Lubna Saghir. Certo è, si dice vicino a casa della famiglia di Sana (descritta come «una grande struttura con tetti spioventi costruita sulla strada principale e oscurata da alcuni negozi sulla parte anteriore»), che i suoi modi occidentali potrebbero esserle stati fatali. «Rabbia e dolore» per «un delitto atroce» li esprimono i rappresentanti della Comunità pakistana, che pensano a una manifestazione: «Vogliamo verità e giustizia. Nessuna giustificazione per quanto successo».