Shalom, «tutti da assolvere»
Suor Rosalina sentita per due ore ma senza giornalisti: «Altrimenti non parlo»
Nessun maltrattamento né sequestro di persona: il pm ha chiesto l’assoluzione dei 42 imputati nel processo alla comunità Shalom. Sentita anche l’anima della struttura, suor Rosalina. Ma senza i giornalisti in aula.
Due anni di udienze. Le indagini, il passaggio di testimone da un pm all’altro. Lui, il sostituto procuratore Ambrogio Cassiani, questa inchiesta l’ha affrontata solo in aula: 42 imputati (e 36 parti offese, tra cui il figlio maggiore del capo procuratore) a vario titolo per maltrattamenti e sequestro di persona nella comunità di recupero Shalom di Palazzolo. Poco più di un’ora, la sua requisitoria, per chiedere «l’assoluzione per tutti. Perché il fatto non sussiste». Le sue conclusioni arrivano a pomeriggio inoltrato. Dopo una mattinata dedicata all’interrogatorio di suor Rosalina Ravasio, responsabile e anima della struttura. Ma «la stampa deve cortesemente uscire» dice il presidente del collegio, Roberto Spanò. Nessuna ordinanza ufficiale: le porte del dibattimento pubblico sono chiuse solo per i giornalisti. «Perché altrimenti lei non avrebbe parlato. E pur di sentirla abbiamo fatto un accordo personale garantendole che voi non avreste assistito».
Prima di analizzare le singole posizioni (di chi accusa, più che degli imputati) il pm tratteggia un affresco del contesto. Di una comunità che ospita tossicodipendenti, ragazzi aggressivi, alcolisti, psichiatrici, «con un’insofferenza patologica alle regole, al lavoro e alla socialità». Persone «da ricostruire, ma che partono dalla consapevolezza di aver bisogno di aiuto, per arrivare al reinserimento». In una parola: «gli indesiderati». Che per entrare a Shalom, «dovevano affrontare fino a 15 colloqui». Ed ecco la questione del consenso, con i diritti e i doveri che ne scaturiscono, «che per quanto mi riguarda non è revocabile», dice il pm, proprio perché «è la stessa comunità, a quel punto, ad assumere un ruolo di garanzia».
Ma il problema è anche un altro: le indagini. Testuale: «Mi ha fatto molto arrabbiare che alcuni capi di imputazione, che poi questo processo l’hanno incardinato, contestassero il sequestro di minori affidati a Shalom dal Tribunale dei minori». O «portati dalle famiglie che non erano più in grado di gestirli». È chiaro che la loro libertà non possa essere definita con discrezione, insomma.
Ma se la premessa necessaria a restare a Shalom era la presa di coscienza, si chiede il pm, «che senso aveva costringere gli ospiti? Nessuno». Allora «dobbiamo scegliere: o facciamo i burocrati del diritto oppure cerchiamo di capire di chi stiamo parlando. L’esercizio della violenza e della vessazione poteva davvero essere un metodo per tenere a bada 350 disadattati? Sarebbe stato il delirio totale, contro ogni logica di autoconservazione, al
Il caso «Il figlio del procuratore non fu sequestrato. Peraltro quel giorno la suora non c’era»
di là della valenza terapeutica».
Perché non lasciare andare chi voleva, senza troppe storie? «Perché credono in ciò che fanno, per non esporre alcune famiglie al disastro assoluto». Le stesse a cui per mesi non era concesso vedere i figli «per non alimentarne le debolezze». Perché «Shalom è uno dei pochi posti che accoglie tutti, non dice no a differenza di tanti altri. E non credo sia un demerito, nè un vulnus per gli ospiti». In 36 denunciano, «ma altre centinaia hanno ottenuto la salvezza. E mai sono stati sentiti». Per la procura non c’è nemmeno il movente, di certo non economico visto che Shalom non prende soldi pubblici.
Scorrendo una per una le posizioni — e le deposizioni — di chi accusa, il pm rileva come le presunte vessazioni siano fatte «di troppi non ricordo, non so, di imputati non identificati. Manca l’abitualità della condotta violenta, così come il dolo». Vedi il capitolo punizioni: in legnaia, di notte. «Non credo fosse una misura fine a se stessa per svilire una persona. Ma credo invece la chiave di lettura sia la percezione che i ragazzi avevano, di queste disposizioni. È vero, è successo. Chiediamoci di nuovo perché». La risposta: per gestire «separatamente» le persone più problematiche («ma mai lasciate sole») e tutelare l’incolumità degli altri.
Ed è lo stesso Gianmarco Buonanno, figlio del procuratore capo («l’ipotesi più drammatica»), per l’accusa, «a indicare solo tre persone, e non suor Rosalina, che quel giorno — era il 12 marzo 2009 — non era in comunità». Le elenca una ad una, la procura, secondo contestazione. Per dire che chi scappava «lo faceva per non subire rimproveri o affrontare il confronto» con gli operatori. Perché «i soggetti ritenuti irrecuperabili erano i primi ad essere cacciati». Per ripercorrere le patologie psichiatriche, anche aggressive. E torna a lui, Buonanno. «È attendibile? Mi sono posto tante domande. Chi l’ha accompagnato sapeva che suor Rosalina non lo voleva, era una figura estremamente negativa, e non escludo abbiano aspettato si allontanasse per farlo entrare a Shalom: il medico che lo curava e un amico di famiglia, d’accordo con i genitori forse». Ci arrivò in auto con il padre, a Palazzolo. Là dove c’era anche il fratello. «Se lei avesse saputo che era stato internato con l’inganno, senza possibilità di recupero, l’avrebbe cacciato a calci. Lo incontrò il giorno dopo, dice fosse tranquillo, è verosimile». Ma lui scappò: «Per lo stesso motivo per cui l’hanno fatto gli altri: non voleva che nessuno gli dicesse cosa fare». E «mai, peraltro, ha denunciato di essere stato trattenuto a forza al fratello o all’amico più caro, mai».
Assoluzione, per tutti. «È l’unico modo per vedere i fatti così come sono emersi a dibattimento».
Il sostituto procuratore Non è pensabile che l’esercizio della violenza fosse il metodo scelto per tenere a bada 350 disadattati. Sarebbe stato al contrario il delirio