Butturini, un viaggio nella follia oltre i confini fisici e mentali
Pantaloni di pelle ideologici e una Fiat 124 coupé color nocciola piena di collant, ha fotografato i tossici che si bucavano nelle cabine telefoniche e le modelle di calze sui marciapiedi di Trafalgar square. È stato nella la Cuba dei compañeros, ha sfilato con i metalmeccanici in sciopero e ha superato qualsiasi confine, geografico e mentale: per Gian Butturini, la Nikon era un’arma di lotta civile. Nel 1975, è entrato in un manicomio di Trieste: di giorno fotografava cancelli, inferriate, testiere del letto buttate sulle foglie secche, scritte sui muri — «Care donne obbedire non è più una virtù» — ed escrementi nei corridoi dei reparti psichiatrici. La notte, raccontava a Franco Basaglia le sue reazioni «psico visive». Quel che resta di quel viaggio nella follia è in mostra nelle sale dell’associazione culturale Via Glisenti, a Vestone: Trieste. C’era una volta l’ospedale psichiatrico (fino al 23 giugno) è stata allestita nel quarantesimo anniversario della legge Basaglia. A un cronista, Butturini provò a raccontare quei giorni a Trieste: «Vidi gruppi di vecchi degenti da decenni abbandonati nel baratro della solitudine sollecitati dagli assistenti a scrivere e a disegnare, a rappresentare ciò che provavano. Era tutto un cantiere di dolenti contraddizio ni dove si coglievano le titaniche difficoltà del cambiament o. Erano gli albori del tentativo di ridare alle persone la dignità perduta. Capii subito che Basaglia prima di essere un medico era un umanista che aveva grande rispetto per la sofferenza dei pazienti». Lui cercò di assecondarlo con l’unica arma che aveva: la fotografia. (a.tr.)