Sei intriganti casi «bresciani» per il giudice Petri
Piccoli mostri, omuncoli capaci di tanto obbrobrio, criminali di cabotaggio ridotto e comunque organizzati, perché il male trova sempre insospettabili risorse anche nella mediocrità più grigia, eppure idonea per truffare e uccidere. Alcuni insetti sono infatti letali quanto le bestie feroci.
L’ex magistrato Gianni Simoni non distoglie l’attenzione dalla palude della provincia, in cui ipocrisia, voracità e cupidigia regolano economie e sentimenti.
Gli assassini non hanno tratti lombrosiani né quozienti di intelligenza alla Hannibal Lecter, sono terribilmente normali, passano inosservati in società.
La chiave rubata e altre storie. Sei casi per il giudice (Tea , pp.240, euro 14,00) è una silloge di racconti in cui ritroviamo personaggi (in primis il giudice Petri, alter ego dell’autore) e ingredienti dell’universo simoniano, Brescia compresa, con la toponomastica del centro storico e le sue consuete colonne di cronaca nera che rispecchiano in scala minore lo smarrimento contemporaneo nazionale. Di un Paese senza, direbbe Arbasino, in cui contano solo l’odore dei soldi e i sogni lunghi un giorno
Il primo racconto, che dà il titolo al volume, vede il giudice Petri ormai in pensione alle prese con una vedova, vicina di casa e appena restaurata dal chirurgo estetico, che ha chiesto un appoggio dopo il furto di un prezioso dipinto di Fattori che aveva in salotto. Gatta ci cova, ovviamente.
Nel secondo racconto Petri, ancora in servizio attivo, se la vede con un’altra vedova, che ha appena perso il marito abbattuto a fucilate, e già si consola con un giovane maschio alfa.
Nel terzo racconto siamo di fronte ad una sparizione nel condominio: il ragionier Bassi, simpatico e affidabile, non ha più fatto ritorno a casa dalla moglie, un maresciallo senza divisa. Un caso da segnalare a «Chi l’a visto»? Il poveretto non è andato da nessuna parte e mai ci andrà. A seguire, un sequestro di persona, un rapina in banca sventata, un caso pietoso di omicidiosuicidio di fronte al quale il commissario Grazia Bruni, il «delfino» di Petri, fa uno strappo alla deontologia professionale. Come sa fare Montalbano.
Senza fare il sermone, Gianni Simoni guarda la canaglitudine che non è un’eccezione, ma una costante delle umani sorti quotidiane.