I GIOVANI CHE SE NE VANNO
Incontro Federica.Vive in Giamaica.Vi è andata tre anni or sono. È tornata per tenere vivo il passaporto. Ma non ha nessuna nostalgia per l’Italia. Ha sempre vissuto sul Garda. Qui, dice, mi pare di essere su una nave di schizofrenici. Tornerà in quella povera terra fra otto giorni. I figli di Franco, tre, vivono l’uno nella Silicon Valley, l’altra a Berlino, la terza a Londra. A Londra vive anche il figlio di Giorgio. A Bruxelles quello di Ilario. È li anche il maschio di Riccardo. La figlia di Beppe sta a Monaco di Baviera. Il figlio di Virginio vive nei campi Onu ai confini dell’Africa subsahariana. E la figlia, che suona il violino, sta in Lapponia. Lavora e si è sposato a Boston il primogenito di Giovanni. La figlia di Andrea insegna a Berlino. Mi trovo ogni sera — dice — con una decina di bresciani. I giovani di cui scrivo sono quasi tutti laureati nelle discipline più diverse. Sono figli di amici che frequento, di persone che conosco da vicino. Nessuno di quelli che mi raccontano l’esperienza parla di un ritorno a casa. Nella cerchia delle conoscenze potrei moltiplicare l’elenco. Vuole dire che i giovani bresciani che se ne vanno all’estero sono centinaia ogni anno. Una classe dirigente che depaupera Brescia e l’Italia. Una perdita di cervelli e di economie. Mi dice Mario Botta, celebre archistar che sta lavorando alla costruzione di una università cinese di tredicimila residenti, che lì, chi vuol frequentare i corsi, deve firmare un impegno a non abbandonare il territorio per i primi cinque anni della carriera post-laurea . Alla sua domanda di spiegazione, gli viene risposto essere quello il tempo minimo sufficiente per ripagare i costi che ogni allievo costa allo Stato. L’emigrazione intellettuale dall’Italia è un fenomeno che ormai si va dilatando con una dimensione che anche per Brescia diventa un modello che cambia la società. Rivedo ogni tanto in città professionisti, ormai non più giovani, che all’estero hanno costruito carriere prestigiose e destini irreversibili. Hanno nostalgia solo della nostra bellezza ambientale. Il contributo che possono dare alla loro ex città, al loro Paese (quasi tutti conservano il doppio passaporto) è solo l’orgoglio della natalità che si portano appresso. Ed è davvero incredibile, tanto più in questo tempo di tensioni così forti sui temi dell’immigrazione, che non ci si occupi affatto della nostra di emigrazione. Anche la nostra città dovrebbe riflettere. Trovare il modo per una anagrafe ragionata, per un contatto stabile, utile per raccogliere opinioni ed esperienze che consentano di aiutarci a capire e pensare il nostro futuro. Oltreché il loro.