54 vittime in 29 anni La madre di Monia: servono pene certe
Le donne, soggiogate. I cavalieri che da principi azzurri si trasformano in mostri. Gli amori, quelli sbagliati, malati. Le audaci imprese, prive dell’aura romantica ariostesca, quelle che abbiamo tristemente imparato a chiamare «femminicidi». Affetti che perdono ogni poesia quando si trasformano in gabbie di umiliazione, violenza e morte. Dal 1989 ad oggi le cronache di Brescia ci hanno raccontato 54 storie di donne uccise da una mano che, invece di dare amore, ha sferrato coltellate, sparato o si è stretta intorno al collo fino a far soffiare via l’ultimo alito di vita. Sono 54 storie, compresa quella di Manuela Bailo, ricordate nel video realizzato e postato su Facebook dalla Casa delle Donne, con i nomi di madri, figlie, fidanzate, amanti, ritenute una proprietà privata, non libere di avere un’altra vita dopo la fine di una relazione, oppure diventate ingombranti. «Il nostro video – spiega Piera Stretti Casa delle Donne – vuole essere un pugno nello stomaco che favorisca la consapevolezza che nessuna donna è esente dal femminicidio che non è altro che l’atto più estremo di violenze che mirano ad annientare la donna psicologicamente, socialmente, economicamente. Ed è dietro la normalità che spesso si annida la violenza». Un video anche per dare dignità alle vittime per le quali si batte Gigliola Bono, con il marito Angelo Del Pero, conduce dal 1989, quando la figlia Monia (la sua storia ha ispirato l’avvio della Casa delle Donne), fu strangolata, spogliata e abbandonata in un sacco in campagna a Manerbio dall’ex fidanzato, Simone Scotuzzi che non accettava la fine del loro amore. Per lui (che aveva partecipato alle ricerche di Monia) rito abbreviato e condanna a 11 anni e 8 messi che, sconti di pena, comunità e domiciliari hanno ridotto a 5 . «A fine luglio con l’Unione Nazionale Vittime, di cui sono tra i fondatori – spiega mamma Gigliola – abbiamo presentato un disegno di legge per l’abolizione del rito abbreviato per i casi di omicidio e per il riconoscimento delle vittime di reati violenti, così come succede per quelle di mafia o terrorismo». La certezza di una pena severa per Gigliola Bono «è l’unico modo per fermare la scia di femminicidi». Serve poi sostegno per i familiari. «Perché un detenuto che esce dal carcere deve avere aiuto psicologico se non trova più gli stessi affetti che aveva prima e non posso averlo io che torno a casa la sera e non trovo mia figlia ad aspettarmi? I detenuti hanno un garante. Noi no». La battaglia si annuncia ardua, «ma io la combatterò per mia figlia e per tutte le altre donne, anche per Manuela e la sua mamma che spero di poter abbracciare presto».