Il gaì, lingua del mistero
Il camuno Goldaniga ha censito ben 1446 lemmi Nel gergo dei pastori il Creatore è «él caser dè töcc» mentre il sacerdote è il «cobüs» per via della tonsura
Nel linguaggio oscuro dei pastori il prete era chiamato «Cobüs» per via della tonsura grande quanto una moneta da un euro. Quando era in uso fra gli ecclesiastici, appariva come un buco nei capelli. E il sacerdote anche senza la talare si riconosceva per la «testa col buco».
Fin dai tempi dei Sumeri «èl casér» che lavora cacio e burro è figura fondamentale per il pastore. Di conseguenza Dio, che governa il mondo, è detto «él caser dè töcc». Quanto al papa, vicario di Cristo, è invece «èl casèr dei cobüs» mentre «èl casér dè santusa» è il parroco, giacché per «santusa» i pastori intendono la messa e la «santuséra» è la messa grande. Di «casér» ve ne sono altri: per esempio il sindaco «casér de slons», dove «slons» sta per paese. E i custodi del gregge, usi alla solitudine della montagna distante dai paesi, vedono i centri abitati «de lons», di lontano. Quando i pastori costruirono il loro linguaggio c’era la monarchia. Ecco che il re e la regina sono rispettivamente «èl caserù» e «la caseruna» pastore
Questo viene in mente sfogliando la terza edizione del libro di Giacomo Goldaniga sul linguaggio chiamato «Il gaì», che sabato sera, ad Albino, sarà al centro di un dibattito con il prolifico autore. Prolifico perché, proprio stasera, nel tetro di Sellero, festeggia il libro numero 50. In 500 pagine, scritte a 4 mani con Cristoforo Bonotti, si racconta di Sellero: dalla preistoria ad oggi con fasti e nefasti, i personaggi, gli usi, la cultura. Aspetti che saranno illustrati da Carla Boroni, docente universitaria.
Si diceva del gaì conosciuto sia nelle valli bergamasche (in particolare la Val Seriana) che in Valcamonica. Osserva Goldaniga: «Perché un vasto pubblico sia interessato al linguaggio dei pastori non lo so». Ha ragione. È un mistero. Eppure da sempre affascina questo gergo comprensibile solo da chi conosceva il significato di parole inventate. Un parlare in codice come altri: quello dei calderai della Vamalenco, delle palere del Friuli, dei calzolai della Valfurva, dei mercanti della Valchiavenna. Linguaggio di protezione, possiamo definirlo, utile a chi lavora nel circo, ai mendicanti, agli zingari; indispensabile ieri agli appartenenti dell’antica ligera ed oggi a camorristi e mafiosi.
Quanto dovesse essere segreto ce lo dice la visita che alcuni «Co dè ross» (capi di gregge) fecero al giornalista Mino Pezzi. Sul Giornale di Brescia Pezzi aveva offerto qualche indiscrezione sul «gaì». I delegati dei pastori volevano sapere a tutti i costi chi avesse fatto la spia. Pensavano che qualche «scabrinada» (bastonata) lo spione se la sarebbe meritata. Tornarono ovviamente in valle con le pive nel sacco.
Del «gaì» si conoscono, grazie a Goldaniga, un totale di 1446 parole fra cui 141 lemmi inediti. Una conquista rispetto alle 570 voci raccolte nel 1921 da Giuseppe Facchinetti in un opuscoletto di 45 pagine chiamato «La slacadura di tacolér». Dove «slacadura» sta per lingua ed il «tacolér» è il pastore, come «tacola» è la pecora e «tacol» il montone. E qui per arrivare al significato dobbiamo riferirci ai grumi di sporco incollati (tacàcc) al vello ovino.
La parola «gaì» è di incerta derivazione. C’è chi vorrebbe farla derivare da Caino per sottintendere un linguaggio falso come falso fu il figlio di Adamo ed Eva rispondendo a Dio di non saperne nulla di Abele: «Son forse io il custode di mio fratello»? Comunque è una lingua parlata e non scritta, tramandata di padre in figlio in un’area pastorale. E poiché il celtico chiama «gaù» le terre dei pastori, ecco altro possibile etimo. di questo gergo. Difficile infatti è comprendere il significato di molti termini, ad eccezione di quelli entrati nei dialetti odierni. Ad esempio sbolognà, gaiòfa, sgapa, slandrù. Ma attenzione alle confusioni perché «petenàs» sta per confessarsi e non pettinarsi, «gacc» non sono i gatti ma il bene. E la «camola» non è la larva della farina o della pasta ma la chiave, il «campanèl» non è quello di casa, ma un debito. Negro non è un figlio dell’Africa subsahariana ma piuttosto il treno a vapore. E infine «èl lampiù» che è il sole e non il lampione stradale.