Corriere della Sera (Brescia)

PAROLE ARMATE E MITEZZA

- Di Massimo Tedeschi

Un tempo il gioco preferito da spiaggia, il gioco dell’estate, erano le parole crociate. Nell’alba incerta della Terza Repubblica sembrano essere diventate le parole armate. In casa, al bar e soprattutt­o sul web ognuno si sente autorizzat­o a parlare e a digitare come se fosse a un comizio di Salvini o a uno spettacolo di Grillo. Anzi, come se fosse Salvini o Grillo. Peccato che il linguaggio sia una delle prime spie di una cosa urticante e pericolosa chiamata guerra civile. Dovendo descrivere un clima simile, uno che se ne intendeva, ebbe a vergare questa descrizion­e: «Per adattarsi ai nuovi eventi, anche le parole dovettero cambiare significat­o. Ciò che era solitament­e descritto come un atto avventato di aggression­e, veniva ora considerat­o come il coraggio che ci si doveva aspettare da un membro del proprio partito; pensare al futuro, attendere, era sempliceme­nte un modo di dire codardo; qualsiasi idea di moderazion­e era solo un tentativo di nascondere la propria vigliacche­ria e la capacità di capire un problema da ogni punto di vista significav­a essere totalmente incapaci d’azione». Ebbene, se questo è il linguaggio della guerra civile, consultand­o i social e ascoltando discorsi pubblici e privati viene da chiedersi come si debba definire la condizione d’oggi. Può sembrare strano ma queste parole non sono figlie dell’era digitale ma sono state scritte quasi duemilacin­quecento anni fa da uno storico ateniese, Tucidide figlio di Oloro.

Invitato a Brescia dall’istituto Iseo Andrè Aciman — l’autore del romanzo Chiamami col tuo nome, da cui il film premio Oscar — disse che dovendo portare un unico libro con sé su un’isola deserta avrebbe scelto «La guerra del Peloponnes­o» di Tucidide in cui si trova la frase citata. Chi è ormai abituato a brandire le parole come clave fracasserà allegramen­te anche questo esile schermo. Qualcun altro, magari, ci penserà su. Dopodomani in Loggia verrà presentata un’autobiogra­fia di Mino Martinazzo­li, il politico che nel passaggio fra prima e seconda repubblica — in solitudine e orgogliosa controtend­enza — evocò il valore della mitezza in politica. Non era, in senso stretto, farina del suo sacco. Paolo VI ricevendo 50 anni fa il consiglio comunale di Brescia in Vaticano aveva già ricordato il motto antico della città mitis et constans: «In un tempo come il nostro — disse — così esposto alle suggestion­i di una violenza cieca e di una smania di nuovo per il nuovo, l’impegno della costanza nella mitezza si rivela di straordina­ria attualità». Uno storico di 25 secoli fa indicava una malattia d’oggi. Un politico inattuale e un papa-santo ne additavano il contravvel­eno. C’è di che riflettere.

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