PAROLE ARMATE E MITEZZA
Un tempo il gioco preferito da spiaggia, il gioco dell’estate, erano le parole crociate. Nell’alba incerta della Terza Repubblica sembrano essere diventate le parole armate. In casa, al bar e soprattutto sul web ognuno si sente autorizzato a parlare e a digitare come se fosse a un comizio di Salvini o a uno spettacolo di Grillo. Anzi, come se fosse Salvini o Grillo. Peccato che il linguaggio sia una delle prime spie di una cosa urticante e pericolosa chiamata guerra civile. Dovendo descrivere un clima simile, uno che se ne intendeva, ebbe a vergare questa descrizione: «Per adattarsi ai nuovi eventi, anche le parole dovettero cambiare significato. Ciò che era solitamente descritto come un atto avventato di aggressione, veniva ora considerato come il coraggio che ci si doveva aspettare da un membro del proprio partito; pensare al futuro, attendere, era semplicemente un modo di dire codardo; qualsiasi idea di moderazione era solo un tentativo di nascondere la propria vigliaccheria e la capacità di capire un problema da ogni punto di vista significava essere totalmente incapaci d’azione». Ebbene, se questo è il linguaggio della guerra civile, consultando i social e ascoltando discorsi pubblici e privati viene da chiedersi come si debba definire la condizione d’oggi. Può sembrare strano ma queste parole non sono figlie dell’era digitale ma sono state scritte quasi duemilacinquecento anni fa da uno storico ateniese, Tucidide figlio di Oloro.
Invitato a Brescia dall’istituto Iseo Andrè Aciman — l’autore del romanzo Chiamami col tuo nome, da cui il film premio Oscar — disse che dovendo portare un unico libro con sé su un’isola deserta avrebbe scelto «La guerra del Peloponneso» di Tucidide in cui si trova la frase citata. Chi è ormai abituato a brandire le parole come clave fracasserà allegramente anche questo esile schermo. Qualcun altro, magari, ci penserà su. Dopodomani in Loggia verrà presentata un’autobiografia di Mino Martinazzoli, il politico che nel passaggio fra prima e seconda repubblica — in solitudine e orgogliosa controtendenza — evocò il valore della mitezza in politica. Non era, in senso stretto, farina del suo sacco. Paolo VI ricevendo 50 anni fa il consiglio comunale di Brescia in Vaticano aveva già ricordato il motto antico della città mitis et constans: «In un tempo come il nostro — disse — così esposto alle suggestioni di una violenza cieca e di una smania di nuovo per il nuovo, l’impegno della costanza nella mitezza si rivela di straordinaria attualità». Uno storico di 25 secoli fa indicava una malattia d’oggi. Un politico inattuale e un papa-santo ne additavano il contravveleno. C’è di che riflettere.