L’autobiografia inedita di Martinazzoli
Riaffiora un testo del ‘93, scritto con Raffaele Crovi: i maestri, le scelte, la politica
Il ritrovamento Il testo, ora edito con il titolo «Nonostante tutto», era rimasto chiuso in una scrivania
Il cambiamento non è di per sé positivo: tale interpretazione appartiene a comunismo e fascismo, culture trapassate tragicamente
In tempi di baldanzoso «governo del cambiamento», dal passato arriva un messaggio in bottiglia che ci mette in guardia e dovrebbe indurre a qualche cautela verso l’esecutivo «amato da due italiani su tre». «La parola cambiamento – è l’incipit del messaggio — non si sottrae all’ambiguità. Non direi che di per sé il cambiamento sia positivo: questo tipo di interpretazione appartiene a culture, come quella fascista e comunista, trapassate anche tragicamente. L’idea che la storia si prefiguri, che sia la politica a impostare il cambiamento non mi convince. La mia attenzione per questa parola è guardinga».
Basterebbero questo lessico forbito e questa sintassi classica come indizi per individuare l’autore. Si tratta di Mino Martinazzoli. E il messaggio in bottiglia — clamorosamente attuale, sorprendentemente anacronistico — è la sua autobiografia postuma e non autorizzata che Scholé dà alle stampe con il titolo Nonostante tutto (pagine 88, euro 10). Un avversativo che appartiene all’intimo modo d’essere di questo «strano democristiano» secondo il titolo di un altro testo martinazzoliano, la sua lunga intervista ad Annachiara Valle.
La vicenda di questo testo ne fa un piccolo caso editoriale. La stesura è della mano di Raffaele Crovi, scrittore e uomo dell’editoria, ed è frutto di alcune conversazioni che Martinazzoli ebbe con Crovi nell’autunno del 1993: la stagione in cui, ultimo segretario della Dc, il politico bresciano si accingeva a fondare il Ppi e incassare la dura sconfitta elettorale del 1994.
In una missiva non datata Crovi si dichiarava soddisfatto del testo. Non così, forse, Martinazzoli di cui non s’è trovata traccia di assenso o autorizzazione alla stampa. Forse gli eventi travolsero il progetto editoriale. Forse il senso della discrezione ebbe il sopravvento. E così il dattiloscritto — in una cartelletta color carta da zucchero — era rimasto per oltre un ventennio nel cassetto di una scrivania fino a quando l’avvocato Paolo De Zan, ereditato quel mobile, s’era accorto del contenuto. Affidato alla composita corte degli eredi morali di Martinazzoli, ne è stata decisa (in maniera non unanime) la pubblicazione. Il libro è diviso tematicamente in tre parti: una — la più caduca — è una dissertazione su unità nazionale, federalismo, enti sovranazionali ed è pensata in evidente risposta all’arrembante Lega di Umberto Bossi. Si tratta — però — di temi che non già la Storia, ma la stessa Lega di Salvini ha rimosso e consegnato al passato.
C’è invece una parte, la più privata e a tratti sorprendente, in cui Martinazzoli parla della propria formazione, dei propri maestri, del farsi della sua idea di politica: quasi «un romanzo di formazione intimo e non svelato» secondo la definizione dell’affettuosa prefazione di Tino Bino.
Sfila in effetti una carrellata di personaggi indimenticabili: il padre che «portava dentro un po’ della malinconia dei camuni»; la madre «simbolo della discrezione»; la nonna materna religiosissima che apparteneva alla lunga schiera di donne di famiglia «che hanno vissuto molto di più da vedove che da spose»; i fratelli «piuttosto riservati, credo timidi» fra cui il minore — tipografo — morto precocemente, di sentimenti vagamente socialisti («credo che quando pronunciava la parola ‘socialismo’ volesse dire ‘altruismo’»). Ci sono poi gli insegnanti — «ho cominciato ad andare a scuola quando le elementari erano governate dalle maestre» — i professori dell’Arnaldo, padre Carlo Manziana, il rettore del collegio Borromeo Cesare Angelini che gli insegnò che «chi studia seriamente ha l’orgoglio di ciò che impara ma deve avere l’umiltà di ciò che non imparerà mai». Infine il richiamo della professione forense, il «fascino teatrale del processo».
La terza componente di questa autobiografia apocrifa è la concezione politica di Martinazzoli, la sua cassetta degli attrezzi concettuale, sono le «parole chiave della vita» che ci interpellano come un paragone alto ed esigente e fanno di questo libro un «testo classico, che contiene i fondamenti della politica» secondo la definizione di Tino Bino.
L’amministrazione locale, la soluzione di problemi anche minimi è la radice dell’impegno pubblico di Martinazzoli che si chiede «se la politica, in fondo, non abbia costituito che una dilatazione dell’interesse per la mia gente; e, naturalmente, mi sono chiesto se questa dilatazione non abbia comportato anche un’astrazione».
Martinazzoli distilla infine un suo personale dizionario etico-politico. Le rivoluzioni? «Non sempre sono il mutamento di tutto, ma sono spesso il travestimento dell’immobilità, del trasformismo; garantisce più cambiamento il riformismo». Il parlamento: «Aveva ragione Brancati: la noia della routine e i condizionamenti corporativi o partitici sono riscattati dai momenti in cui il parlamentare è chiamato a garantire la libertà, la salute, la pace e il benessere economico dei cittadini». La responsabilità individuale: «Nella storia accade spesso, e accade anche adesso, che gli uomini che vogliono interpretare il loro dovere di cittadini non abbiano alternative, non debbano chiedere prima se la sorte sarà benigna, ma essere uomini di speranza». Il coraggio: «È la dignità di fronte alle prove che ti vengono proposte». L’ironia: «Uno strumento decisivo per vivere degnamente». La mitezza: «Non è rinuncia. È una forma di discrezione».
Ma che politica inseguiva e incarnava, in definitiva, Martinazzoli? Lo confessa lui stesso: «Evito gli slogans, mi danno imbarazzo; non mi piacciono i discorsi che non rivelano un minimo di spessore interiore; la verità è che mi porto dentro la convinzione, fattami negli anni della professione di avvocato, che le parole contano, che le parole dicono cose, che le parole devono esprimere idee».
In ciò, quello strano democristiano che era Martinazzoli era in sintonia con la poesia di Giorgio Caproni che amava citare spesso:
Essere in disarmonia / con l’epoca (andare / contro i tempi a favore / del tempo) è la nostra mania. /
Crediamo nell’anacronismo. /
Nel fulmine. Non nell’avvenirismo. /
Evito gli slogans, mi danno imbarazzo; la verità è che mi porto dentro la convinzione che le parole devono esprimere idee
Il coraggio è la dignità di fronte alle prove che ti vengono proposte. L’ironia rappresenta uno strumento decisivo per vivere degnamente