«Lucky», nel requiem di un vecchio ateo la poesia della solitudine
Bella o brutta, dalla vita non si esce vivi. E il sottofinale, la vecchiaia, è un viaggio nella terra più aspra: ci si prepara a mollare la presa, ad accettare l’incompiuto e l’ignoto. Lucky, il film di John Carroll Lynch in prima al Nuovo Eden, è un toccante ma anche crudo De Senectute che racconta lo stremo di un corpo rinsecchito e scolpito dagli anni, la fragilità di un uomo all’ultimo atto (Harry Dean Stanton, attore feticcio e qui protagonista di se stesso, confinato a lungo in ruoli marginali e poi consacrato da Wenders, D. Lynch e Sorrentino, morto a 91 anni poco dopo le riprese) che resiste all’incalzare del tempo con la dignità di un quotidiano ordinato e rituale. Ogni mattina, abluzioni, yoga, esce, bar frequentato da soliti avventori, le parole crociate, il Bloody Mary, compra il latte e le sigarette allo store gestito da una donna messicana, rientra nella sua casetta country per immergersi nelle notti stellate di un SudOvest che ha le sembianze di un set western abbandonato. Giornate tutte uguali ovattate dai silenzi di una immensa solitudine, fatta eccezione per l’invito alla festa chicana. La trama non si dispiega, ci sono solo personaggi, dialoghi, abitudini come una partitura meccanica. Eppure dalle fessure di questo copione rigido, che una regia tradizionale si perita con pieno merito di restituire nella sua fisiologia ripetitiva, emergono non solo gli stenti dell’età, ma anche la melanconia dolce della saggezza che si acquisisce in corso d’opera. Sono belle le storie dentro la storia che riguardano la fuga della tartaruga che rivendica la libertà nel deserto, il senso filosofico del sorriso buddista della bambina di fronte alla morte, le confessioni smozzicate di paura e abbandoni, l’avversione tipicamente fordiana nei confronti degli avvocati, emblema della civiltà del raggiro. Lucky è un requiem, ma alimenta la speranza. Diceva Sant’Agostino che la speranza ha due meravigliosi figli: l’indignazione e il coraggio. E il grande Harry Dean Stanton ci appare proprio così: ancora capace di indignarsi.