Sisifo, Camus e gli altri «ribelli»
Elogio degli ultimi intellettuali superstiti, «capaci di stare dalla parte del torto»
Nel 1951, sei anni prima di ricevere il premio Nobel per la Letteratura, otto anni prima di schiantarsi a 140 all’ora contro un platano sulla strada di Sens, Albert Camus dava alle stampe «L’Homme révolté», L’uomo in rivolta, che gli costò la rottura con Jean Paul Sartre e con l’ortodossia comunista, ma gli fece compiere un decisivo passo avanti sulla strada della consapevolezza e autonomia di pensiero, della denuncia dell’assurdo in cui è immersa l’esistenza e dell’indicazione della via d’uscita: una via offerta non già dai movimenti rivoluzionari ma da un pensare misurato, relativista, figlio della cultura mediterranea ma non per questo meno radicale e «rivoltoso».
Il non-senso che domina il mondo era già stato analizzato, nel 1942, dall’autore de «La peste» e «Lo straniero» ne «Il mito di Sisifo». Nelle pagine di questo saggio si trova l’affermazione secondo cui esiste un solo problema filosofico serio: quello del suicidio. Risolverlo equivale a stabilire se la vita valga la pena di essere vissuta.
Paolo Barbieri ha fatto di questo assunto il punto di partenza e il perno di un lungo saggio «Sul suicidio» che costituisce parte preponderante della raccolta di scritti «Forme della ribellione» (Moretti e Vitali, pagine 170, euro 16). Giornalista originario di Gardone Valtrompia, formatosi professionalmente a Bresciaoggi, Barbieri ha poi lavorato a lungo all’agenzia Ansa di Milano per la quale ha seguito alcuni dei fatti di cronaca giudiziaria e politica, nazionale e internazionale, più importanti degli ultimi anni. Direttore della rivista Qui libri, animatore con la moglie Maddalena Capalbi del Laboratorio di Poesia della Casa di reclusione di Bollate, Barbieri aveva dato alle stampa una lunga ricostruzione delle vicende giudiziarie della strage di piazza Fontana. La propensione saggistica era già emersa con «Gli occhi di ThaBeccaria, natos», la passione per la filosofia con il contributo dato alla nascita di Ases-Associazione di studi Emanuele Sevrino che ha sede a Brescia. E Barbieri fa del pensiero neo-parmenideo di Severino il criterio per vagliare non solo il tema del suicidio (e dunque del valore e del senso di vivere) ma anche il ruolo degli intellettuali oggi, il pensiero filosofico e politico di Leopardi, la via d’uscita dalla Grande crisi iniziata nel 2008.
Il filo rosso dei quattro saggi del libro (corredati da una breve piéce da teatro dell’assurdo) è appunto la rivolta: contro il male di vivere, lo stigma religioso, i tempi accidentati e deludenti che ci è dato vivere, il tradimento dei chierici (gli intellettuali) e la modestia di un tempo che ha sostituito l’ascolto degli intellettuali con l’inseguimento delle celebrità.
«Il linguaggio è la casa dell’essere» aveva scritto Heidegger, puntualmente citato da Barbieri. «Forme della ribellione» è prima di tutto un inno al linguaggio, alla potenza che la parola scritta da intellettuali, scrittori, filosofi sa dispiegare nell’interpretazione dell’essere. E così questa colta indagine sul suicidio, inappagata dalle interpretazioni mediche e sociologiche, fa ricorso alla letteratura per capire il gesto estremo: quello compiuto da Socrate, quello giudicato da Agostino, Tommaso, Maometto, quello analizzato e narrato da Nietzsche, Heidegger, Sartre, Camus, Tommaso Moro, Küng, Goethe, Dostoevskij, Svevo; quello praticato da Michaelstaedter, Trackl, Celan, Benjamin, Primo Levi, Esenin, Marina Cvetaeva, Majakovskij, Salgari, Silvia Plath, Anne Sexton, Antonia Pozzi, Amelia Rosselli, Virginia Woolf, Yukio Mishima, von Kleist, Zweig, Turing.
Una rassegna colta e non macabra, che porta a contatto con alcune delle scritture e delle vite più avvincenti della letteratura moderna e contemporanea. Un groviglio di pensieri, ora lucidi ora drammatici, su cui cade come mannaia che recide il nodo gordiano l’enigmatico «Siamo re che si credono mortali» di Emanuele Severino, il filosofo che ha teorizzato che la morte appartiene alla manifestazione degli eterni e che il destino alla felicità dei viventi si compirà nella Gloria.
Se il suicidio diviene una rivolta che sbaglia il bersaglio, centratissima è invece la mira di Giacomo Leopardi che denuncia «il nulla, il solido nulla» del suo tempo e dell’esistenza umana contemporanea: poeta e filosofo autentico al tempo stesso, Leopardi consente a Barbieri di fustigare i costumi degli italiani di ieri e di oggi, additarne il cinismo e la litigiosità, richiamare la nobiltà della politica e la necessità per gli intellettuali di stare «dalla parte del torto»
Sulle orme di Parmenide
Il pensiero neo-parmenideo di Severino è il criterio per vagliare non solo il tema del suicidio ma anche il ruolo degli intellettuali
Poeta e filosofo
Leopardi denuncia «il nulla» del suo tempo e fustiga i costumi degli italiani di ieri e di oggi, indicandone cinismo e litigiosità
rispetto al pensiero unico del loro tempo. Un elemento, quest’ultimo, che pervade altri due saggi del libro insieme a un rimando alla centralità del pensiero fiorito sulle sponde del Mediterraneo (un’area che, secondo antica definizione, finisce dove non cresce più l’ulivo) per decifrare alla radice gli eventi del nostro tempo. Un tempo a cui allude il breve testo teatrale conclusivo, «Partita a scacchi», dove due personaggi à la Beckett decidono di interrompere una sfida attorno alla scacchiera: ribellandosi, appunto, rispetto alle regole dettate da una presenza incombente e, solo apparentemente, onnipotente.