Andrea Lepidi, il monaco laico
Nel mondo delle cooperative e nell’impegno politico cercò il riscatto degli umili
Ha vissuto una vita buona e bella. Che è propria di un uomo felice. Sono tre aggettivi che non potrei usare per nessuna altra biografia, per nessuna altra vita di amici, dei tanti che ho frequentato, dei molti che se ne sono andati. Nessuno come Andrea Lepidi aveva le stigmate di un monaco laico, che possiede il talento e la vocazione per stare dentro la vita e viverla e combatterla con la fede di un monaco che pratica solo la preghiera e la laicità di un uomo convinto davvero, come gli innocenti, che gli ultimi saranno i primi. Ed era inutile rammentargli che la profezia era fallace, che la storia si era incaricata da tempo di smentire quella ambizione e che la realtà era di tutt’altra pasta. Caro Andrea, la storia, gli dicevo utilizzando l’aforisma di un autore incontestabile, non ha il dovere di far vincere il giusto, ma di dare l’aureola del giusto a chi vince. Non c’era verso. Continuava a gridare, come il bimbo della favola, «il re è nudo». Si batteva a mani scoperte, osava sfidare il mondo, non ne accettava le ingiustizie, si indignava contro l’ignavia, scalava a mani nude montagne delle quali non avrebbe mai raggiunto la vetta.
È stato un uomo buono, perché nutriva una fiducia profonda, sincera, inattaccabile verso la vita. Di cui aveva assaporato tutte, ma proprio tutte, le difficoltà, dalla povertà contadina alle disgrazie familiari, dalle difficoltà economiche ai tradimenti delle amicizie, dalle delusioni politiche alle solitudini sociali.
Ed ha avuto una vita felice proprio perché la fatica del vivere gli ha ampliato il solo paradigma che disegna la felicita: la risposta alla ricerca di senso, il tentare sempre di essere fedele alla domanda ultima che ci abita. Vivere felicemente non è vivere senza fatica, senza le sofferenze e le contraddizioni di ogni giorno, ma attraversarle consci che c’è sempre una ragione che vale la pena di farcele affrontare.
È stato felice perché ha amato molto non solo la sua famiglia, ma la sua terra, il suo mondo. Aveva coscienza radicata delle radici contadine, considerava le tribolazioni un carattere naturale della terra che il padre coltivava, aveva un colloquio naturale quasi una preghiera con la natura, verso la quale nutriva un rapporto di contemplazione dichiarata e di meraviglia manifesta. Anche il giorno della sua morte lo ricordo così, la bara nella casa sul confine della campagna, le finestre aperte sull’afa di luglio, e sul granoturco maturo, e sugli afrori così inconfondibili della bassa.
Sì, servirebbero le immagini di Ermanno Olmi, le parole di Enzo Bianchi, le poesie di John Donne per raccontare la grande umanità di Andrea, le sue avventure di frontiera, e la sua gratuità nell’amicizia, la sua gratitudine per i traguardi raggiunti, per i giorni intensi, densi di impegni, carichi di appuntamenti, ricchi di ideali.
No. Andrea non è mai stato avaro di sé stesso. Ha dato molto in tante direzioni, nei mille rapporti collettivi, e soprattutto individuali che ha coltivato senza mai calcolarne il costo. Qualche volta caso mai togliendo spazio a sé, sacrificando gli affetti della famiglia che amava (era il solo addendo verso cui si sentiva debitore, il solo cruccio di un rimorso). Rinuncerà per la famiglia al secondo mandato di presidente della Provincia perché sentiva, lì, il dovere di una più acuta presenza.
La sua è una biografia che va compresa e apprezzata, avendo l’umiltà e la capacità e la disponibilità di conoscerne e valutarne i dettagli. Dentro il dettaglio sta il valore della vita. Sono le marginalità, gli ignoti gesti quotidiani che danno spessore all’umanità, che danno senso al destino e alla storia. È lì che si rintraccia l’ identità autentica, si capisce un modo di pensare, di guardare il mondo, di onorare la vita. Bastava parlare con Andrea per capire di lui questa essenziale qualità di vita. E immaginare le migliaia di rapporti personali intessuti a cominciare dai dieci anni di giovane sindaco del suo paese, e le migliaia di gesti compiuti. Ognuno di noi è quello che ha pensato, amato e compiuto. Ed è quello che appare quando la presenza è visibile, l’impegno è pubblico, e l’orma del percorso diventa più tracciabile.
Nella storia del dopoguerra bresciano l’orma di Andrea Lepidi si iscrive come un modello, un esempio virtuoso di quella storia del cattolicesimo democratico e delle sue classi dirigenti che seppero coniugare una ispirazione di parte come progetto universale di sviluppo e di crescita della società.
Andrea appartiene a quella generazione che s’é fatta da sé, cresciuta sulla macerie
Dopoguerra
Apparteneva alla generazione che s’é fatta da sé, cresciuta sulla macerie della Storia e sulla povertà dell’economia
Cattolicesimo
Era un esempio di quella storia del cattolicesimo democratico che seppe coniugare ispirazione universale e crescita della società
della Storia e sulla povertà dell’economia vissuta dalla parte degli umili, degli sfruttati, delle classi deboli e marginali. E che per questo manifestava una forte ansia di riscatto della propria condizione sociale e di quella popolare che ha così significativamente e degnamente rappresentato. Era nato lì dove è stato sepolto, fedele ad un ambiente che capiva, ad una cultura di cui è profondamente nutrito, ad un humus dal quale non si è mai staccato.
E così, ancora oggi, come nel romanzo di Ernesto Sabato, ogni volta che il vento passa sulla tomba di Andrea, si carica di semi per i campi più aridi.