Donne assassinate Chi sono e perché
Nel 58% dei casi bresciani nasce da un litigio o una separazione
Spesso disoccupate, sulla quarantina, appena separate o in una relazione difficile: uccise dentro casa, per lo più con un’arma bianca. Da un uomo più grande che diceva di amarle. È il drammatico «identikit» delle donne bresciane che negli ultimi 18 anni sono rimaste vittime di un femminicidio. Numeri, statistiche e riflessioni sono racchiusi nella tesi di specialità in medicina legale di Maria Cristina Russo, 31 anni.
Spesso senza lavoro, italiane, sulla quarantina, appena separate o imbrigliate in una relazione sentimentale difficile: uccise dentro casa, per lo più con un’arma bianca. Da un uomo — connazionale — di qualche anno più grande e che diceva pure di amarle. È il drammatico «identikit» delle donne bresciane che negli ultimi diciotto anni sono rimaste vittime di un femminicidio. O meglio, la definizione semantica corretta (ma meno comune) sarebbe «femmicidio»: usato per la prima volta nel 1976 da Diana Russel il termine fu declinato in «femminicidio» 21 anni dopo da Marcela Lagarde. E identifica «la forma estrema di violenza di genere contro le donne, caratterizzata da un insieme di condotte misogene (dai maltrattamenti fisici alla prevaricazione psicologica) che può culminare nell’omicidio». Perché non tutte le donne muoiono in quanto tali.
A spiegarcelo, snocciolando numeri e statistiche, è Maria Cristina Russo, 31 anni, di Villongo (Bergamo) che ha scelto di dedicare la sua tesi di specialità in medicina legale frequentata alla Statale di Brescia proprio alle «vittime di omicidio di genere femminile». L’illuminazione durante una lezione: «Il professore ci fece federe il film Polytechnique, che racconta la strage del 6 dicembre 1989 al Politecnico di Montréal, quando il venticinquenne Marc Lépine uccise 14 studentesse e si tolse la vita».
Dal 2000 al 2017 a Brescia sono state assassinate 51 donne: 39 i casi di femminicidio (il 77%), 12 quelli in cui invece il delitto non è stato «di genere». Gli autori sono uomini. E se «solo» il 24% delle vittime è rappresentato da straniere, in realtà sono proprio queste a rischiare di più, considerando l’incidenza sulla popolazione.
Il picco, in realtà, tra i 21 e i 30 anni. E se dall’elaborazione dei dati emerge che la vittima di femmincidio non lavora, in oltre l’82% tra la stessa e il suo carnefice esiste «una relazione affettiva», non necessariamente (ma quasi sempre) amorosa. L’analisi sul movente lo conferma: nel 33% dei casi di femminicidio una donna muore — il 74% delle volte in casa — per gelosia, passione, al culmine di una lite. Nel 26%, invece, tra lei e il suo assassino c’è una separazione in corso o quasi. Seguono (nel 23%) situazioni di disagio famigliare, dove per lo più persone anziane si trovano ad affrontare malattie neurodegenerative del partner. Un caso su quattro si conclude con il suicidio dell’autore.
«Nonostante viviamo in una società evoluta — conclude Maria Cristina nella sua tesi — siamo ancora di fronte a un’impostazione patriarcale». Dal suo lavoro emerge che le forme di padronanza della donna si manifestano per lo più in casa, dove ancora si cresce «con l’archetipo nazionale uomo-donna in cui la seconda assume una posizione subordinata piuttosto che autonoma e indipendente». E allora, e lo dice anche l’Oms, «tra i fattori di prevenzione da adottare c’è prima di tutto l’educazione. questa ricerca dimostra che non bastano repressione e punizioni, ma che si deve agire a monte. Per prime le stesse donne, in quanto educatrici dei figli verso i quali il messaggio deve cambiare».