IL BIGIO IN PIAZZA VITTORIA? SÌ, MA SOLO DOPO AVERNE CAMBIATO IL SIGNIFICATO
Gentile Tedeschi, leggo che il caso del «Bigio» non finisce di stupirci. Adesso, dopo l’accordo fra Comune e Soprintendenza, pare che rivedremo il Bigio in un posto diverso da quello per cui fu pensato. Non le sembra che tutto assomigli a una farsa?
Luigi Colosio Caro Luigi, in attesa di capire meglio se Lei vedrebbe bene il Bigio di nuovo in piazza Vittoria oppure se lo lascerebbe là dove si trova oggi (nel magazzino comunale di via Rose) le dico il mio pensiero. Premetto che l’idea di esporre il Bigio in luogo diverso da piazza Vittoria è stata lanciata per la prima volta da queste colonne da Massimo Minini, poi diventato presidente di Brescia Musei e ora decaduto dal medesimo incarico. Minini, allora notista del Corriere della Sera di Brescia, propose anche di presentare il Bigio sdraiato, privandolo della postura un po’ tronfia e indisponente. Un modo per riconciliare la statua con la città prima — evidentemente — di ricollocarla in piazza Vittoria. La proposta ha suscitato qualche ilarità (di cui sono stato testimone diretto in qualche convegno storico) ma ha una sua ragionevolezza, e mi pare quella su cui siamo incamminati. Come finirà? Credo che, alla fine, il Bigio tornerà in piazza Vittoria. Il dilemma è quando. E come. Il problema della statua del Dazzi è il nome. È il fatto di chiamarsi «Era fascista». I nostri nonni l’avevano addomesticato ribattezzandolo Bigio, ma il nome ufficiale non fece a tempo a scollarglisi di dosso. E così, oggi, rimettere sul piedestallo «L’Era fascista» resta un problema. Come uscirne? Si tratta di dare un diverso significato alla statua. Una volta tornata in piedi, potrebbe appropriarsene il mondo Lgbt, con quelle sue fattezze ostentate e quelle sue pudende schermate a renderne persino incerto il genere. Oppure, con un polpaccio rifatto e un gomito ridotto a protesi evidente — così come si presenta oggi — potrebbe diventare la prima statua «invalida» della storia, e fare persino tenerezza. Il problema insomma non è la statua ma il messaggio che le assegniamo. E su quello c’è ancora da lavorare.