Alla scoperta del Sezuan di Sgrosso e Bucci
Marco Sgrosso: «Opera particolare di Brecht, autore bello da riscoprire»
Un favola che ci consegna un tema da svolgere: in un mondo dominato dal dio denaro con le sue logiche spietate, come è possibile praticare la bontà? La stagione di prosa del Ctb apre stasera (ore 20.30) al Sociale con «L’anima buona del Sezuan», capolavoro di Bertold Brecht per la regia di Elena Bucci, che ne è anche l’interprete, affiancata come sempre da Marco Sgrosso, attore e collaboratore sodale di ogni allestimento condiviso. Un sodalizio artistico il loro, che dal 2005 ha dato sostanza e qualità alla storia del Tric bresciano. E proprio con Sgrosso ci relazioniamo questa volta.
Come siete arrivati a scegliere quest’opera?
«E un testo quello di Brecht – ci racconta – che vanta in Italia precedenti celebri: la versione di Strehler, l’edizione dello Stabile di Genova con la Melato. Noi siamo partiti da un idea di base diversa e ci spostiamo verso una diversa direzione. È un testo su cui io e Elena abbiamo lavorato molto e che ci ha a sua volta lavorato dentro in questi anni, oggetto di sedute laboratoriali, cui sono seguite anche prove aperte. È un’opera particolare anche all’interno della produzione brechtiana, ambientata in un Oriente occidentalizzato e con un suo lato onirico, magico. La sua attualità è trasparente: parla di come bene e male coesistano dentro l’uomo, di come coltivare l’anima bianca e quella nera, di come Shen-Tè, la protagonista, debba declinare due identità per rendere possibile la sua sopravvivenza. In questo periodo in cui si discute di accoglienza, di condivisione la presenza dell’Altro collauda, mette anche a dura prova i concetti di etica e di democrazia in una società fondata sui privilegi».
Sul palcoscenico ci saranno 29 maschere.
«La maschera fa parte della storia del teatro e dell’attore. Per l’attore è la possibilità di rappresentare più personaggi, ma è anche qualcosa di atavico che tira fuori qualcosa che non è quello che si vede. Inoltre crea distanza. La parola di Brecht a volte rischia di diventare pedante, didascalica, da professorino. In questo modo la maschera aiuta a stemperare e a riportare il discorso su un altro piano».
Brecht è stato in auge dell’immediato dopoguerra. Voi l’avete riportato alla ribalta.
«È un autore impegnativo e non solo per il suo versante ideologico, di impegno politico. Smuove una mole importante di temi. Il suo non è teatro da camera, di pochi personaggi. Oggi è poco amato, anche perché è diventato semisconosciuto. Ma va detto che sa cosa è il teatro, fa discutere, è necessario. E poi è un autore che possiede una forte cifra ironica, non leggera, ma spettacolare».
Ci sono stati molti debutti nella vostra carriera. Questo cos’ha di diverso?
«È bello ritornare al Sociale, negli ultimi anni siamo stati al Santa Chiara. La sera della prima ci tiene sempre con il fiato sospeso. Siamo alle prese con una messinscena più impegnativa nel cast e nelle scenografie. E’ una macchina complessa, nove attori e 29 maschere che dietro le quinte si cambiano e si moltiplicano. Ci vuole organizzazione tecnica e matematica».
"Sgrosso La maschera fa parte della storia del teatro e dell’attore Ci dà la possibilità di fare più interpretazioni