LA LEZIONE (LAICA) DI UN PRETE
La notizia della morte di monsignor Antonio Fappani — per tutti don Antonio — avvenuta ieri mattina, s’è sparsa in un baleno fra gli amici. Dolorosa ma non inattesa per chi conosceva le ultime tribolazioni fisiche, sopraggiunte dopo che don Antonio aveva tagliato il traguardo dei 95 anni il 15 agosto scorso. Subito al cordoglio per il distacco s’è unito un fitto intrecciarsi di aneddoti, di ricordi, persino di sorrisi e qualche celia. È la certificazione, spontanea e immediata, di una vita spesa bene, di giornate feconde, della scia luminosa che il transito su questa terra può lasciare. E che don Antonio lascia. Sarà difficile e ci vorrà tempo per fare un bilancio meditato del segno che don Fappani lascia nella storia bresciana. Tanti gli aspetti rilevanti: l’impegno sociale del giovane curato, la pionieristica assistenza spirituale agli scout, e poi il giornalismo vissuto come militanza sociale e religiosa, gli studi vasti (anzi sterminati), l’infaticabile capacità di inventare e creare istituzioni culturali votate a durare anche dopo di lui, sebbene oggi ci si interroghi con un pizzico di sgomento su come ciò possa avvenire. Il tutto senza mai cedere di un centimetro nella fedeltà alla Chiesa, nel suo essere integralmente, intimamente, radicalmente prete. Limitando tuttavia la riflessione all’eredità che don Antonio lascia in ambito culturale, balzano evidenti almeno tre aspetti essenziali, costitutivi e impegnativi del suo operare.
Il primo punto è il carattere enciclopedico del suo sapere, è la capacità di unire alto e basso, classicità e popolarità, accademia e folklore. Pubblicare l’opera omnia di don Antonio è semplicemente impossibile: il catalogo della rete bibliotecaria bresciana, con un censimento lacunoso, addita 1618 (sì, milleseicentodiciotto) titoli a lui riconducibili. L’Enciclopedia Bresciana, non esente da errori e inciampi, e tuttavia talmente vasta e varia da lasciare ammirati e da risultare imprescindibile punto di partenza per ogni ricerca locale, è l’emblema di questa predisposizione onnivora, non selettiva, monumentale e pop al tempo stesso. Il secondo punto sta proprio nella popolarità del sapere che don Antonio predicava e praticava. Lo studio specialistico, la sintesi storiografica, lo scavo archivistico in lui non erano mai separati da una profonda vocazione alla divulgazione, alla comunicazione del sapere acquisito, meglio se con una prosa sciolta, con formule accattivanti, con strumenti sempre aggiornati. Più moderno di tanti «modernisti», don Antonio ha promosso mostre, convegni, libri, istituzioni, collane editoriali, tesi di laurea, studi specialistici, raccolte di fonti iconografiche, pubblicazioni digitali: una bulimia mossa dalla voglia di condividere, diffondere, far conoscere. Infine il terzo punto di questa eredità, il più impegnativo, ha a che fare con la concezione stessa della cultura che don Antonio ha incarnato e che ha difeso a costo di diventare querulo quando l’ha vista declinare nel sostegno pubblico e privato. Una concezione che, per essere compresa, richiede che venga sciolto un equivoco: don Antonio era un provinciale orgoglioso, ma non ha mai peccato di provincialismo. Un altro grande vecchio della cultura bresciana scomparso da poco, Renzo Baldo, ha scritto che per provincialismo deve intendersi «l’inclinazione alla retorica celebrativa e autocelebrativa, la tendenziale riduzione della cultura a spettacolo o intrattenimento, il sostanziale disinteresse per la diffusione di una cultura criticamente consapevole». In questo senso Fappani è stato immune dal provincialismo e costringe oggi molti a qualche autocritica. Anche di questa lezione grazie caro, carissimo don Antonio.