Lo storico in tonaca e le decine di libri
Lo stile umile, i libri e le grandi ricerche
Si è spento ieri mattina monsignor Antonio Fappani, 95 anni, prete giornalista e storico.
L'addio Si è spento ieri mattina il sacerdote - giornalista già direttore del settimanale diocesano «La Voce del Popolo» autore di decine di pubblicazioni e dell’Enciclopedia Bresciana
Si può dire che la vita, monsignor Antonio Fappani, l’abbia passata o in ginocchio in preghiera o alla scrivania, biro alla mano e un grossa lente davanti agli occhi per decifrare antichi documenti. Tutta fra via Tosio e San Giuseppe la sua vita: casa, studio e Fondazione Civiltà Bresciana. Antonio Fappani, che ci ha lasciato ieri mattina alle 7,15 in una stanzetta della clinica Poliambulanza, nasce a Quinzano, terra dei «gozatù», stando allo scotöm dato agli abitanti. Papà Giuseppe, contadino, è detto «Pì gris» per via di capelli e sopracciglia come gli albini. Mamma Teresa Saleri aiuta nei campi, quando la levatrice non l’obbliga a letto. «Ón fiöl sul? Tè sét mia ‘n grazia del Signur» diceva il parroco alle spose. E così, per essere nelle grazie di Dio, dopo Antonio, nato il giorno di Ferragosto del 1923 — èl dé dè la Madóna — mette al mondo altri cinque fratelli: Angelo (1925), Stefana (1932), Giovanni (1935), Lucia (1937) e Mario (1941). «Eco, perché te ghét fat èl prét, perché tè sét nassìt en d’ön dè de festa» — gli ripeterà uno zio per prenderlo in giro. Nel 1936 Antonio entra in San Cristo, il Seminario minore. Profitto eccellente, ottimo latinista, male in matematica. Un anno di malattia lo costringe a completare gli studi in 13 anni, e non in 12. Nel 1946, per curare i polmoni, deve riposare a Sondalo. Era ferrea la regola di monsignor Zammarchi, il rettore: «Oltre i cento giorni di assenza il seminarista ripete l’anno».
Don Antonio ha sempre detto di dover la vita alla beata Stefana Quinzani, figlia di contadini del suo stesso paese, vissuta fra il 1457 ed il 1530. A lei nei giorni del sanatorio aveva chiesto la salute. E il 22 aprile 1945 quando nella piazza di Quinzano una raffica di mitra tedesca l’aveva sfiorato fu certo che a deviare le pallottole era stata la mano della beata. Promise che un giorno avrebbe scritto l’elogio della beata e divulgato la sua vita edificante. Promessa mantenuta tre anni fa.
Dal 5 dicembre 1948 Fappani è suddiacono e dal 18 diacono. Lascia il Seminario il 29 giugno 1949. Ordinato sacerdote nella parrocchiale di Quinzano, viene mandato curato a Borgo Poncarale. Per perpetua ha la sorella di Pì gris, la zia non sposta, sempre vissuta con i Fappani. Dopo la zia sarà mamma Teresa a badare al figlio. Poi, alla sua morte nel 1983, il compito passerà alla sorella Lucia che l’ha accudito fino ad oggi. Di lei don Antonio scherzando diceva: «Sono convinto che mia sorella abbia la sindrome di Peter Pan. Mi tratta sempre come un bambino».
A Poncarale resta 8 anni, dal ‘49 al ‘57. Se i contadini disertano la chiesa s’incarica lui di fare il giro delle cascine. Un amico, il dottor Bianchetti, lo ha ben descritto: «Don Antonio, come tutti noi, non è esente da difetti. Uno caratterizza la sua personalità. Una umiltà che in certi momenti sembra quasi una implosione psicologica, frutto di poca stima di se stesso, sempre in cerca dell’ultimo posto, sempre preoccupato di non recare disturbo, ottenendo magari l’effetto opposto. Cerco a volte di fargli notare che ciò può rappresentare una superbia raffinata, ma per tutta risposta mi fa un sorriso».
Nel 1957, per la lungimiranza del vescovo di allora monsignor Giacinto Tredici e di don Giacinto Agazzi, don Antonio è nominato vice assistente spirituale delle Acli. La sua presenza, fino al 1961, coincide con una stagione ricca di iniziative.
A don Antonio era sconosciuto il clergyman. Mai senza talare. Ricoverato nel 2004 al Fatebenefratelli pensava di poter allacciare la tonaca sopra il pigiama. A Borgo Poncarale fu protagonista di un caso politico: il centro Acli era sorto per i salariati della campagna ma lo frequentavano anche proprietari e affittuari, con disappunto generale. Allora don Antonio fece affiggere alla porta del locale un cartello con scritto: «Vietato ai padroni e agli affittuari». Subì ritorsioni, ma rimase fermo nelle sue decisioni. Una delegazione andò dal Vescovo a denunciare quel curato “comunista”.
Dopo il 1957 inizia a scrivere per «La Voce del Popolo». Mons. Paolo Guerrini vuole che lo segua negli archivi. Lo carica di manoscritti da decifrare. Nel 1958 don Antonio entra nel ristretto numero degli archivisti ecclesiastici. Ha poi incarico di ordinare l’immenso archivio della famiglia Montini. I documenti del giornalista Giorgio, morto nel 1943. La corrispondenza della signora Giuditta. Messaggi, lettere e cartoline del figlio, al tempo arcivescovo di Milano. Fappani storico si rivela con un libro per il centenario di San Martino e Solferino: «Assistenza ai feriti del 1859». Nel 1960 L’Ateneo — ne diverrà socio nel 1961 — gli conferisce il premio Carlo Bonardi, istituito dal senatore, per quelle opere che meglio abbiano illustrato la storia cittadina.
Spazia da Lady Montagu, alla vita del canonico Tiboni. Scrive di Gabriele Rosa e di Zanardelli ed «il Crepuscolo». Si occupa dal clero bresciano nella prima guerra mondiale e del collegio Peroni. Nel 1982 analizza l’episcopato di Gerolamo Verzieri in 6000 pagine. Si dedica a studi colombiani nel quinto centenario della scoperta dell’America e s’interessa alla dinastia dei Wuhrer. Scrive e scrive, sempre su carta riciclata, da bravo parsimonioso.
Dal 1961 dirige «La Voce del Popolo», settimanale