Un giornalista con la schiena dritta
Da giornalista don Antonio non si è mai tirato indietro, perché aveva la schiena dritta.
Ricordare don Fappani giornalista mi mette in grandi difficoltà. Ho lavorato accanto a lui dal 1962 al 1983, praticamente il tempo della sua direzione della Voce (iniziato nel 1961). Quindi faccio fatica ad assumere un tono spersonalizzato nel raccontare di lui. Provo a non far debordare i miei ricordi, che per raccoglierli ci vorrebbe un libro. Innanzitutto quelli sono stati anni straordinari. Non sono infatti fra coloro che considerano il Concilio Vaticano II una disgrazia per la Chiesa e il ’68 la fonte di tutti i mali fino ad oggi. Alla Voce abbiamo vissuto il Concilio con entusiasmo, corroborato fra l’altro dall’elezione a papa di un bresciano. Negli anni a seguire, dalla contestazione studentesca alla protesta sindacale (a Brescia ben più significativa della prima), dai referendum sul divorzio e sull’aborto alla strage di piazza Loggia e alla Brigate Rosse, l’impegno giornalistico ci metteva ogni giorno in prima linea.
Don Antonio non si è mai tirato indietro. Non ci ha mai frenato. Le contestazioni contro la Voce non mancavano. Anzi. Tuttavia la sua reazione si scaricava in qualche brontolata tutt’altro che severa. Per quanto mi riguarda gli ho procurato più di un guaio (anche di qualche peso), ma non mi ha mai censurato, non dico una riga, nemmeno una parola. Devo insistere su questo aspetto personale perché serve a conoscere don Antonio: ogni tanto, nei momenti più critici, mi diceva brontolando che l’avrei fatto morire martire. Avevo sempre l’impressione che avesse un tono vicino alla complicità. Perché la virtù fondamentale di don Antonio era la sua estraneità al potere. Di qualsiasi genere. Politico o clericale. E il potere gli è passato accanto mille volte, ma non si è mai lasciato sedurre. Quindi anche dal punto di vista giornalistico era uno con la schiena diritta (anche se la sua schiena fisica era sempre come piegata sul manubrio di una bicicletta).
L’opinione più diffusa nei suoi confronti lo pensa più come storico che come giornalista, ma per come l’ho vissuto io, in lui i due aspetti non erano per nulla separati. E trovavano la sintesi nel suo ufficio: una scrivania e una serie di scaffali da cui tracimavano per ogni dove i ritagli di giornali e riviste. Una specie di Google cartaceo della notizia. Quante volte mi sono domandato come faceva a trovare il ritaglio che gli serviva
in quella selva selvaggia. E lui ogni volta smentiva il mio scetticismo. Quando diede il via all’enciclopedia bresciana ero più scettico che mai. E lui ancora una volta mi ha bagnato il naso.
L’ultima volta che ci siamo visti è stato poco più di un anno fa. Mi ha chiamato perché aveva bisogno di aiuto per la mostra che stava progettando e che si è tenuta in Duomo vecchio recentemente. L’ho trovato nello stesso ufficio di Voce, anche se non aveva le stesse mura. Appena mi ha visto mi ha rimproverato perché non gli avevo inviato un libro su don Ferrari. Per l’una e l’altra cosa gli ho fatto presente che era ora che si riposasse invece di rincorrere ancora libri, ritagli di giornali, fotografie e via dicendo. Ha fatto finta di non sentire e mi ha regalato l’ultima sua brontolata sulla insensibilità di chi dovrebbe occuparsi delle cose di cui si sentiva in dovere di occuparsi. Ho avuto la percezione di un ritorno al futuro di un passato da non dimenticare. Perché don Antonio non passerà.
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Le virtù
Quella fondamentale era l’estraneità al potere. Di qualsiasi genere: politico o clericale