Francesco Cancarini, l’alpinista gentile che sapeva raccontare la montagna
La timidezza e il tratto gentile. La riservatezza e l’umiltà. La competenza e l’ardore nell’affrontare pareti e dislivelli. I sostantivi rischiano di moltiplicarsi per cercare di descrivere l’alone, il tepore, il ricordo che Francesco Cancarini lascia dietro di sé. L’alpinista di 28 anni che ha perso la vita lunedì mentre risaliva in solitaria una cascata di ghiaccio che si stacca dalla pista «Paradiso» al Tonale era a un passo dal trasformare in lavoro — guida alpina — la passione che gli covava dentro. Ne aveva dato pochi, troppo pochi saggi anche ai lettori del Corriere della Sera di Brescia a cui aveva schiuso, con i suoi articoli, il fascino di alcuni luoghi da lui molto amati: il fatale Adamello raccontato come paradiso per gli amanti dello sci fuori pista su neve fresca (il freeride), ma anche la Val di Mello e le falesie della Valle dell’Opol ai piedi del Monte Guglielmo. Francesco Cancarini aveva una grazia speciale, un talento naturale nel raccontare quei luoghi e quelle pareti: amava soffermarsi sui profili tecnico-alpinistici (la difficoltà, la lunghezza dei tiri di corda, le pendenze) ma sapeva tratteggiare anche il fascino della natura, la magia dei segni lasciati dal passaggio dell’uomo. I suoi articoli arrivavano via mail, quasi in punta di piedi. Impeccabili. Ora la salma di Francesco è composta nella casa di famiglia, in via Sant’Orsola 149C a Caionvico, circondata dal dolore del padre Federico, del fratello maggiore Lodovico, della mamma Monica Rovetta (insegnante al Gambara, consigliere comunale del Pd, impegnata sempre: nella scuola, nella cultura, nella società). Lei all’età di dieci anni aveva già provato un lutto legato alla montagna, la morte del papà Lodovico per una caduta sui monti amati di Andalo. Ora che il dolore tracima, viene da chiedersi che fatalità abbia tradito un alpinista esperto come Francesco, ma soprattutto cosa lo abbia spinto su sentieri così impervi. Viene in mente il profumo di libertà che Francesco provava, e trasmetteva con i suoi racconti. Vengono in mente le parole che un esperto di montagna come Franco Brevini ha scritto circa «la misteriosa urgenza che ogni volta spinge l’alpinista a ripartire», l’attrazione per «il punto in cui entrano in collisione la minaccia della catastrofe e la gioia per il suo superamento», il bisogno di «conoscere la morte per essere convinti di poterla vincere». La vittoria stavolta è toccata a lei, alla morte, e questo lascia, a chi resta, la sensazione di un’ingiustizia patita, lo strazio del distacco precoce, la nostalgia di un’assenza che già pesa.