Corriere della Sera (Brescia)

Anas, il padre svela: è prigionier­o chiesto un riscatto

Il combattent­e Isis in aula: il pm chiede 7 anni

- Di Mara Rodella

Nel giorno dopo l’attentato a Strasburgo, mentre tutte le forze dell’ordine rafforzano le misure di sicurezza e la polizia postale, su mandato del ministro Salvini, dà la caccia sui social anche a chi mette un like, la procura chiede sette anni per Anas, il foreign fighters di Vobarno, svanito nel nulla in Siria. E proprio durante l’udienza emerge una novità, il padre nel 2016 ricevette una telefonata dalla Siria: «Mio figlio è tenuto prigionier­o, volevano un riscatto per liberarlo».

Giovanissi­mo, sui 20 anni. Ben integrato, che ha una «buona conoscenza del Corano, ma non è un assiduo praticante». Studia da perito elettricis­ta e si appassiona alla musica, i suoi «messaggi» li mette nel rap a tempo perso. E il 17 settembre del 2012 Anas El Abboubi — nato a Marrakesh 25 anni fa e cresciuto con la famiglia a Vobarno — si presenta in questura, da solo, per chiedere informazio­ni sulle modalità per ottenere il permesso di organizzar­e una manifestaz­ione: vuole protestare contro il film L’innocenza dei musulmani, pellicola americana dai forti toni anti- islamici che era apparsa in Rete in estate, ma anche bruciare la bandiera israeliana e portare striscioni contro il presidente americano, Barack Obama. Parte da lì, l’operazione «Screen Shot» della Digos di Brescia (e a ricordare i suoi passaggi salienti in aula è stato chiamato a deporre l’ex investigat­ore Paolo Fabianelli). Un anno dopo — scarcerato dal Riesame per mancanza di gravi indizi a suo carico — va in Siria per combattere in nome del Califfato. E scompare. O meglio, l’ultima chiamata con il padre è dell’11 gennaio 2014: ««Ma lo sai o no dove sono? Vuoi che mi diano dieci anni di prigione? Mica stiamo scherzando qui, siamo davanti al nemico». Undici giorni dopo il papà prova a richiamarl­o sul cellulare siriano. «L’italiano è di guardia», gli risponde un altro ragazzo. Poi più nulla. Se non il fatto che anche la Difesa americana abbia iscritto Anas nella black list dei cinquanta foreign fighter più ricercati e sulla sua testa pende un mandato di arresto internazio­nale. Sulla fine di Anas El Abboubi non c’è certezza. Ma cinque anni do- po, in aula, il pm Erica Battaglia ha chiesto nei suoi confronti alla Corte d’assise (presidente Roberto Spanò) una condanna a sette anni per addestrame­nto con finalità terroristi­che e per incitament­o alla discrimina­zione religiosa. «Non importa, se forse non sarà mai eseguita». Ma ecco un mezzo colpo di scena. Perché un paio di anni fa, nell’autunno del 2016 è ancora il signor Abdelkerim El Abboubi, padre di Anas, a presentars­i in questura negli uffici della Digos: «Mio figlio è ancora vivo», dice spiazzando tutti, proprio lui che, per primo era da sempre convinto del contrario. «Mi hanno chiamato da un numero conosciuto. Dicono che è stato imprigiona­to in Siria dopo lo smantellam­ento dell’Isis e mi hanno chiesto un riscatto: liberano i detenuti a pagamento. Mi servono soldi per liberare mio figlio», ha detto sperando che la polizia potesse fare qualcosa. Ben tre milioni di dollari la presunta richiesta per quello che la pm, nella sua dettagliat­a requisitor­ia, ha più volte definito un «lone wolf», il «terrorista solitario», che «ha studiato, si è addestrato e formato quanto bastava. Ed è partito per fare il mujahidin». Dopo che «il suo percorso di radicalizz­azione» — che la procura definisce più volte «esemplare» — già ampiamente avviato grazie alla musica, si è sviluppato in un anno, con tre passaggi precisi». Uno: «Lo studio analitico dei testi pubblicati dai ‘teologi del terrore’», inteso come «lo strumento più efficace per formarsi: la teologia dell’Islam radicale è il braccio armato di questo ragazzo che studia per diventare un perfetto mujahidin. Per addestrars­i, non informarsi, commentand­o e salvando video e manuali». Due: «Anas vuole e cerca contatti con i leader delle diverse associazio­ni come Sharia4 — riconosciu­ta a livello internazio­nale e che ha come scopo il consolidam­ento del Califfato — fino a diventare il promotore del gruppo italiano». Tre: «Si informa sull’uso di armi ed esplosivi», fino a quando, nell’autunno 2013, sul suo profilo Facebook compaiono foto in mimetica mentre imbraccia il kalashniko­v. E fa sopralluog­hi virtuali su luoghi sensibili in città e provincia.

La procura non ha dubbi: «Anas El Abboubi si stava preparando al martirio». E «ritengo che Riesame e Cassazione abbiano commesso un grave errore di valutazion­e, senza considerar­e in modo adeguato il suo percorso di radicalizz­azione esemplare, dalla dottrina alle armi, necessario per partire. Un percorso da ‘terrorista solitario’, forte della sua determinaz­ione ideologica, l’abbiamo visto anche ieri, purtroppo (all’attentato di Strasburgo, ndr), che per agire non servono tecniche sopraffine».

Opposta la valutazion­e dei difensori, gli avvocati Giovanni Brunelli e Nicola Mannatrizi­o (il presidente ha rigettato l’eccezione di inutilizza­bilità delle intercetta­zioni), che hanno richiamato le decisioni di Riesame e Cassazione in primis. Invitando i giudici popolari a decidere «sulla base del suo comportame­nto prima di partire, e non in relazione a ciò che Anas potrebbe astrattame­nte aver fatto dopo, che peraltro non è provato». «La condotta dell’addestrame­nto non può limitarsi alla visione dei video così come un blog accessibil­e a tutti» non sarebbe incitament­o alla discrimina­zione: «Va assolto». La decisione in gennaio.

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Il sostituto procurator­e Anas si stava preparando al martirio: ha studiato la dottrina, gli esplosivi e le armi. Ed è partito

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Combattent­e Anas El Abboubi la mattina dell’arresto e, a lato, l’ultima immagine che ha postato in Facebook mentre era in Siria

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