Il rivoluzionario dei fornelli
Andrea Malpeli, salodiano d’adozione, ha scritto una pièce che debutta lunedì a Milano dedicata ad Auguste Escoffier (1846-1935), cuoco di guerra, dei poveri e dei potenti Usava la mollica e gli avanzi, era amico di re e rivoluzionari, ideò piatti mitici
C’è una minoranza silenziosa, quorum ego, che la pensa come Rocco Schiavone, il burbero vicequestore dei romanzi di Antonio Manzini: quando sente parlare di chef, si innervosisce. Di mio, dalla mia sintomatologia, ci aggiungo anche inappetenza e reflusso gastrico. Colpa dei cooking show e delle relative solfe mediatiche, non certo della cucina, che rimane luogo della condivisione umana e civile, anzi di più.
Claude Lévi-Strauss, antropologo totem, ha rimarcato il nesso profondo fra il «crudo della natura» e il «cotto della cultura». Ovvero, se cucinare avesse solo a che fare con il bisogno di alimentarsi, si potrebbe addirittura non cucinare. Sono gli animali che si nutrono, gli uomini pensano il cibo e lo mangiano, perché il cibo è materia ma anche rito e simbolo. Si dice che Aristotele fosse un collezionista di pentole. È solo un caso?.
Non è un caso che Andrea Malpeli, nativo di Parma ma salodiano di lunga stanza, cofondatore del Teatro dell’Acqua dei fratelli Lievi, abbia una formazione filosofica. Nella fattispecie, è anche un drammaturgo di vaglia (il prestigioso Premio Riccione 2003 con il testo Io ti guardo negli occhi, sul tema dell’emigrazione) con un curriculum di assoluto rispetto: lunedì 17 dicembre al Piccolo Teatro Strehler di Milano va in scena il suo ultimo lavoro, «Escoffier e il nuovo alfabeto».
Una pièce di alta scrittura, in cui la parola teatrale riunisce rotondità sonora e sedimentazione di senso, intrecciando biografia e grande storia. Una narrazione corale, commissionata da Pietro Arrigoni, regista e collaboratore all’Alma, la scuola di Colorno ispirata all’insegnamento di Gualtiero Marchesi, e ricalcata nella strutturata dalla coralità usata dalla psicanalista americana Judith Lewis Herman per raccontare il trauma, in quanto il coro è frammentazione della coscienza e ricomposizione della memoria.
Il protagonista è Auguste Escoffier (1846 – 1935), «cuoco dei re, re dei cuochi», uno dei padri dell’arte culinaria, colto in alcuni momenti di passo della sua vita: quando contempla la nonna intenta nella preparazione del caffè, a riprova che l’empiria abitudinaria o quotidiana è il risultato di una scienza e di una liturgia depositata nei secoli, oppure quando — altro momento clou —– durante l’assedio di Metz, capitolo del conflitto franco-prussiano destinato a concludersi con una batosta ingloriosa dell’esercito transalpino, Escoffier, riservista nelle retrovie, e il fido aiutante Bouniol trafugano i pali della ferrovia per cuocere il rosbif da dare ai soldati sgomenti nella disfatta. La sua cucina è il modo di «tenere insieme la nazione nel caos», di dare con le dignità del cibo la vita ai tanti Lazzari e miserabili della guerra, di donare beatitudine terrena in una situazione estrema di emergenza, di coniugare etica e bisogno.
Il testo di Andrea Malpeli parte dagli anni in cui Escoffier lavora all’Hotel Carlton di Londra, il cui proprietario era César Ritz, quello della catena di alberghi di lusso, allude ed evita sullo sfondo la tragedia del Titanic, ripercorre viaggi, illustra ricette (la mousse di merlano e gamberi, le allodole del padre Filippo, le uova Bignon…), mette a fuoco la filosofia morale (ed estetica) di questo chef, che nasce come cuoco durante la guerra e sa essere grande anche fuori dalla cucina, maestro e padre per tutti, un rivoluzionario della buona tavola.
«Escoffier — racconta Malpeli — è una figura emozionante. La cucina per lui è cultura del servizio, un dovere. Dà da mangiare a re, banchieri e grandi stelle dello spettacolo ma anche ai poveri, agli ultimi (da lì arrivano i refettori di Bottura), è amico di re ma anche di Ho Chi Minh, utilizza gli avanzi, la mollica e la farcia, insegna a sfamare e risparmiare prima che a deliziare i palati, invita alla semplicità di una cucina che nasce dalla mancanza, pratica l’anarchia dello stupore. È il cuoco che va in sala a chiedere i desideri dei clienti e, come tale, è disposto a irriverire il canone e a ripartire da zero, reinventando il piatto. Con lui nasce la cucina della visita che si contrappone a quella della esibizione».
Tutto il contrario rispetto alla retorica pompier del coking show odierno.